Si può scegliere in libertà ma non imprudentemente
Nel passato questa formuletta era conosciuta solo ai giuristi che avevano una qualche dimestichezza con il diritto americano, ma oggigiorno è diventata patrimonio comune di tutti i sistemi giuridici e viene utilizzata per descrivere norme simili presenti in altri ordinamenti.
La regola di diritto di cui si parla è quella per la quale gli amministratori di società devono -come recita l’art. 2392 del codice civile- adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle
loro specifiche competenze” e sono responsabili nei confronti della società per i danni ad essa derivanti dall’inosservanza di tali doveri. Tuttavia, come ha ricordato la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (I sezione Civile, del 16 febbraio 2023, n. 4849), è altrettanto vero che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, poiché tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e benché possa essere giusta causa di revoca dell’amministratore non è fonte di responsabilità contrattuale. In altre parole, quando la scelta è frutto del business judgment dell’amministratore, non può comportarne la condanna al risarcimento dei danni eventualmente patiti dall’impresa, in quanto le scelte di gestione “anche se presentano profili di rilevante alea economica non sono sindacabili”.
Peraltro, la Suprema Corte, citando recenti decisioni del 2016 e del 2020, ricorda che questa regola patisce un’eccezione e il giudice potrà “sindacare il merito delle scelte imprenditoriali” se queste “valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti”.
L’inciso è degno di nota per due motivi. Il primo è che le parole usate dal giudice di legittimità sembrano alzare l’asticella di colpevolezza. Infatti. La manifesta avventatezza ed imprudenza sembra andare al di là dei canoni di “culpa levis” o negligenza, tipici della responsabilità contrattuale richiamati dall’art. 2392 c.c. e si avvicina molto di più al concetto di colpa grave, tipica dell’ordinamento americano dove molte leggi statali e la giurisprudenza la considerano alla base della responsabilità degli amministratori.
Questo approccio non sembra completamente in sintonia con un atteggiamento più interventista che si ritrova, ad esempio, in un’altra pronuncia della Cassazione, del 15 luglio 2021 che pur confermando “l’insindacabilità da parte del giudice di merito
delle scelte gestorie assunte dagli amministratori” ha fatto tuttavia salva “la valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ‘ex ante’, secondo i parametri della diligenza di cui all’art. 2392 c.c. sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere».
E’ pur vero che i doveri degli amministratori sono vaghi perché in parte rispondono a regole precise (ad esempio, convocare l’assemblea o approvare il bilancio), in parte a standard comportamentali e quindi è persino possibile che accenti sicuramente
diversi, come quelli della sentenza del 2023 rispetto a quella del 2021, abbiano magari alla base comportamenti identici o molto simili. Non si può fare a meno di notare, però, che rimane un margine di incertezza sull’estensione della protezione accordata dalla business judgment rule. L’unico approccio concreto per mitigare tale incertezza consiste in un’adesione sostanziale non solo alla normativa e ai codici di autoregolamentazione come quello ad esempio di Borsa Italiana (utile anche per le società non quotate) ma altresì in una codificazione interna seguendo la quale sia più agevole per l’amministratore affermare la legittimità del proprio operato e l’insindacabilità del suo giudizio imprenditoriale.
Alessandro De Nicola, Il Sole 24 Ore, 23.02.2023