Con il Consiglio dei ministri di ieri è partito il cantiere della riforma fiscale, che durerà l’intera legislatura visto che ci si propone un confronto in parlamento sulla legge delega per approvarla entro inizio autunno, poi 2 anni per le misure attuative e altri 2 anni per la loro integrazione e modifica. Su diversi punti la delega assume idee tratte dal testo su cui lavorarono i partiti in parlamento nella scorsa legislatura. Ma al testo mancano troppi dettagli essenziali, per misurarne e giudicarne davvero gli effetti. Il richiamo iniziale ai princìpi generali della Costituzione, norme UE e cantieri fiscali OCSE è opportuno, speriamo davvero si riesca a costituzionalizzare come indicato lo Statuto del Contribuente, sempre calpestato dallo Stato. Apprezzabile la parte su semplificazione degli adempimenti per il contribuente, e volontà di rafforzare gli interpelli preventivi all’amministrazione tributaria sui mille problemi interpretativi delle norme vigenti: ma è da respingere l’idea di far pagare al contribuente gli interpelli per finanziare AgEntrate, lo Stato non è il CAF dei sindacati.
Su IVA e imposte indirette, il progetto di allineamento alle disposizioni UE è giusto. Bisognerà capire che cosa significhi in termini di scelte su cosa esentare dall’imposta, e su cosa agevolare nel settore dei beni comuni. Non si comprende ancora quali siano le linee d’intervento in materia di rimborsi, croce senza delizia dei soggetti a IVA. In questi anni la trasmissione telematica dei dati IVA è stato un vantaggio per lo Stato e per la lotta all’evasione, molto meno per i contribuenti adempienti. L’articolo dedicato alla riforma delle accise enuclea finalità energetiche apprezzabili, come il sostegno alle rinnovabili. Ma manca una riflessione organica sulla necessità di un’unica visione per accise, detrazioni e deduzioni e sussidi di ogni tipo ai soggetti in campo energetico, che configuri una sorte di unico codice fiscale per il settore green-ambientale.
Per l’IRPEF, l’idea iniziale era di diminuire le aliquote da 4 a 3, accorpando secondo e terzo tra gli attuali scaglioni, dei redditi tra 15.000 e 50.000 euro. In assenza però di dettagli sulla revisione annunciata delle detrazioni/deduzioni IRPEF, non è possibile in alcun modo effettuare calcoli di convenienza fiscale. Né sulle aliquote reali che ne deriverebbero davvero (in termini di progressività), né tanto meno sugli effetti conseguenti al bilancio e deficit pubblico. In extremis alla legge delega sono state aggiunte due clausole di salvaguardia: la prima insieme rafforza ma un po’scetticamente la finalità conclamata e sbandierata di diminuire la pressione fiscale complessiva, poiché afferma che il combinato disposto delle misure non può farla invece crescere; la seconda è il vecchio mantra per il quale le minori entrate previste vanno compensate all’interno della stessa riforma, iI che preso alla lettera significa che la pressione fiscale non scende, visto che il tema di tagli corrispettivi alla spesa pubblica pari al minor gettito non è neanche sfiorato. La bandierina di un’IRPEF “tra 5 anni flat tax per tutti” resta uno slogan ideologico valutabile solo nei mesi a venire. È tuttavia sin da oggi positivo mirare all’unificazione di trattamento fiscale dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria, soggetti oggi a incomprensibili diversi regimi, nonché di rivedere l’attuale tassazione dei Fondi Pensione.
Sul fisco d’impresa, è apprezzabile e anch’essa desunta dal ddl della scorsa legislatura, la volontà di differenziare l’aliquota facendola scendere dal 24% fino al 15% in caso di destinazione degli utili non a dividendo soci ma a investimenti, fusioni e patrimonializzazioni d’impresa. Per migliaia d’imprese oggi gli oneri del debito salgono per via dei tassi, e la montagna dei 200 miliardi di prestiti a garanzia pubblica decisi nel COVID è da restituire nei prossimi anni. C’è da sperare che il parlamento rifletta su quanto importante a tal fine sia una revisione dell’IRES commisurata alla sfida della crescita. Non ha senso invece prevedere l’aliquota agevolata a seconda dei dipendenti assunti in coorti di lavoratori decisi dalla politica: per questo la politica può agire tagliando il cuneo fiscale, non intervenendo sull’aliquota IRES. Resta poi integralmente aperto il coordinamento tra la nuova IRES e la legge delega sulla riforma degli incentivi alle imprese nel nuovo quadro europeo, che spetta al MIMIT. Andavano pensate insieme.
Sull’IRAP non ci siamo proprio: dopo anni di promesse vane lo si vuole abbattere solo per le associazioni professionali e per le società di persone, i “piccoli” tanto cari alla destra. Mentre la beffa è di riservare alle società di capitali la sostituzione dell’IRAP con una sovraimposta su base imponibile IRES e con l’impossibilità di sottrarvi le perdite fiscali. Considerano l’impatto delle diverse tipologie d’impresa su Pil, occupati ed export, questa visione di un’IRAP abbattuto solo per “piccolo è bello” non ha senso. Manca ogni visione sulla necessità che gli incentivi Industria 4.0 e Industria5.0 siano strumenti da rendere ordinari e permanenti, come leve strutturali per far crescere e attirare imprese nei prossimi anni e decenni, invece di restare soggetti a modifiche e tagli annuali che rendono impossibile ogni seria programmazione. Nella riforma dunque qualche luce ma anche molte ombre, come si vede. Il peccato di origine è non esser partiti da una visione organica, partendo da un modello previsivo degli obiettivi indicati rispetto agli impatti concreti che a seconda di come li si definisce eserciterebbero sul totale delle attività economiche e della coesione sociale del nostro Paese. Di qui il mancato coordinamento organico con la riforma degli incentivi alle imprese, a cominciare da quelli energetici. E la persistente separazione tra entrate tributarie e contributive: quando invece intervenire su entrambe in maniera coordinata è il miglior modo per accrescere il tasso di attività e occupabilità. Come verranno risolti ora tutti questi nodi irrisolti? Molto dipenderà ora da come in parlamento il governo si presterà alla discussione. Non sono temi da ridurre a urlanti ideologie contrapposte. Servono politici che capiscano di fisco, e lo riconducano alle sfide e ai gap che gravano sull’intero Paese.
Di Oscar Fulvio Giannino