Le cronache politiche avvampano per la vicenda giudiziaria che investe il ministro Santanché.
Neanche una frazione dell’attenzione viene riservata al tema di cui il suo ministero si occupa, il turismo. Un gran peccato: perché il turismo da sempre domina nella convegnistica nazionale e locale come “petrolio d’Italia”.
Portando categorie e operatori a esagerare innanzitutto sul peso del settore: è un luogo comune che il turismo determini il 13%-14% del valore aggiunto sul PIL, ma in realtà a quel totale si arriva aggiungendo l’intero apporto della ristorazione, dell’intero sistema trasportistico e dei servizi culturali e d’intrattenimento, senza tropo far caso se la produzione di beni e servizi di quel settore sia consumata da residenti e non da turisti.
In ogni caso, è vero che il turismo sia una leva essenziale per occupati e attrattività, visto anche il suo apporto alla bilancia dei pagamenti nazionali per la componente estera.
Ma il rischio sempre più forte è che si perda una nuova occasione per riparare ritardi e colli di bottiglia che continuano a gravare sulla sua offerta di servizi.
La pandemia aveva inferto un colpo esiziale alle imprese e agli addetti di settore (380mila nella accezione ristretta, circa 2 milioni con l’intero indotto di cui sopra). Il 2022 ha registrato una ripresa superiore alle aspettative a cominciare dalla componente estera, ma si era ancora chiuso con presenze inferiori di 34 milioni di unità rispetto a quelle del 2019.
I dati dei primi 4 mesi 2023 sono ottimi: i pernottamenti dei non residenti sono stati 12,7 milioni, il doppio di Spagna e Francia, con un aumento di spesa della componente estera superiore al 30%.
Siamo tornati a livelli prepandemia e li supereremo nell’anno. Sebbene la frammentazione di competenze Stato-Regioni non aiuti, una svolta vera non avviene però soprattutto perché la politica non se la sente, di indicare alcune priorità vere su cui puntare.
Il timore è lo stesso che si legge nella vicenda dei balneari: inimicarsi vaste parti di un’offerta iperfrazionata e largamente sottocapitalizzata per investire in quel che si potrebbe e dovrebbe. Basta pescare a caso da un oceano di dati sul turismo, per insospettirsi.
Nel recente rapporto annuale ISTAT 2023 si legge l’aggiornamento statistico relativo ai 22 brand italiani di maggior attrattività turistico-territoriali che negli anni l’istituto ha classificato: dieci nell’Italia del Nord, nove al Sud e tre nel Centro Italia. Dovrebbero rappresentare la prima leva da potenziare: lavorare sulle eccellenze a maggior moltiplicatore, invece di disperdersi nelle migliaia di borghi.
Se consideriamo il tasso di ricettività (numero di posti letto offerti per 100 abitanti) c’è una scala precisa di dove puntare: si va dagli oltre 80 posti letto delle valli dolomitiche, ai poco più di 11 del Salento e lago di Como che andrebbero potenziati.
Se si vuole graduare l’impatto sulla popolazione residente per evidenti ragioni di sostenibilità, basta guardare all’indice di pressione turistica: si va dalle ipercongestionate 200 presenze per abitante nelle Dolomiti, ai poco più o poco meno di 5 in Salento e nelle Langhe. Ma non c’è traccia di questo, nel Piano Strategico per il Turismo presentato dal governo alle Camere la scorsa primavera.
Perché oggi lo Stato può far appello alle Regioni, ma non può scegliere lui le eccellenze su cui puntare. Il Piano si articola così in svariati pilastri: il sistema fiere (rilevante per il business travel, ma il tema è competenza del MIMIT), il turismo leisure, quello di alta gamma, la formazione degli addetti (competenza regionale), la riforma delle professioni turistiche (che spetta al Ministero del Lavoro), il sistema dei trasporti (su questo, bussare a Salvini).
I 2,4 miliardi stanziati dal PNRR per il turismo sono dispersi a pioggia, e 1,4 miliardi sono destinati alle imprese di ricettività. Attraverso una pluralità di fondi a diversa percentuale di copertura di spese e investimenti: il Fondo Nazionale del Turismo, il Fondo BEI per il turismo, il Fondo Rotativo delle imprese, il Fondo di Garanzia PMI. Il più di questi bandi è volto però a interventi di miglioramento dell’impronta energetica e ambientale delle imprese e alla formazione di personale (la cui mancanza oggi di molte migliaia di unità viene giustamente ricordata dal Centro Studi di Confcommercio).
Non prioritariamente all’efficientamento dell’offerta del servizio: ad esempio al superamento del frazionamento dell’offerta alberghiera non managerializzata, che ci porta ad avere solo poche centinaia di alberghi appartenenti a grandi catene o di elevato standard per il turismo di alta gamma. La digitalizzazione dell’offerta si perde nella pioggia di finalità concorrenti.
Ma tutti i dati mondiali comprovano che il digitale è la leva principale dell’attrazione. Sia per intercettare grandi flussi mondiali, attraverso l’interfaccia diretto coi grandi player digitali delle offerte internazionali a pacchetto, sia nel business travel.
Sia per la capacità di praticare in portali unici un’offerta integrata non solo di ricettività e ristorazione e trasporto, ma di fruizione della più ampia forbice di consumi culturali e di tutte le specialità del made in Italy.
Per fare questo, l’idea del Piano strategico è di far nascere, sempre che le Regioni siano d’accordo, un grande Hub Digitale del Turismo. Che dovrebbe nascere dall’ENIT, ed essere di Stato.
Errore capitale: lo Stato non ha le competenze per un simile business. Serviva invece una grande gara internazionale tra i maggiori players specializzati di settore, incardinandosi sulla grande capacità di analisi e sviluppo rappresentata oggi da eccellenze come l’Osservatorio dell’Innovazione Digitale nel Turismo e l’Osservatorio sul Businees Travel, entrambi istituiti presso il Politecnico di Milano.
Che disdetta, doversi occupare di una vicenda giudiziaria invece che di tutto questo.
Di Oscar Fulvio Giannino