Nell’elaborare il concetto di concorrenza perfetta gli economisti hanno immaginato una realtà in cui operino molti venditori e molti compratori di beni e servizi.
Molti produttori e molti consumatori, nessuno dei quali sufficientemente grande – o potente – da poter influenzare con le proprie scelte le azioni degli altri.
A questo si aggiunge, in quella costruzione, un ulteriore elemento: la mobilità.
Produttori e consumatori possono entrare nel, od uscire dal, mercato, decidendo di intraprendere quella attività, o quella professione sulla base delle aspettative di miglior guadagno, e per i consumatori di acquistare quel nuovo prodotto che meglio soddisfi le proprie domande.
In un siffatto modello il prezzo di quei beni o servizi tende necessariamente al costo: fintantoché ci siano margini di profitto si troveranno nuovi intraprenditori pronti a fornire un bene o servizio in concorrenza con gli altri produttori o fornitori.
Se si vuol semplificare, si può senz’altro sostenere che i capisaldi di quel modello di concorrenza perfetta siano tre:
1- che una merce omogenea venga offerta e domandata da un gran numero di venditori e consumatori, tutti relativamente piccoli in modo da non poter influenzare la condotta degli altri;
2- che vi sia libertà di entrata nel mercato e che non vi siano vincoli al movimento dei prezzi e delle risorse;
3- che tutti coloro che operano in quel mercato abbiano una conoscenza completa dei fattori rilevanti nelle rispettive scelte.
Un modello di concorrenza perfetta presuppone, fra l’altro, che siano noti i dati sui quali si basano le scelte tanto di chi produce quanto di chi consuma.
Se una simile concorrenza esistesse nella realtà, l’esigenza stessa di un qualche intervento da parte del decisore pubblico sarebbe escluso in partenza.
Il problema stesso di assicurare la concorrenza per aumentare il benessere sociale non esisterebbe punto.
Aveva indubbiamente ragione Luigi Einaudi quando sosteneva che tutti noi facciamo dei piani.
L’imprenditore pianifica i propri investimenti, decidendo se aumentare o meno la produzione, se introdurre un qualche miglioramento che gli consenta di produrre lo stesso prodotto a minor costo, o di produrlo allo stesso costo con migliori qualità.
Dall’altro lato, il consumatore programma le proprie spese, secondo il proprio vincolo di bilancio, valutando se e quando acquistare quel bene o quel servizio che soddisfa (anche) i propri bisogni e le proprie preferenze.
Una società aperta si pone quindi il problema di quale sia il livello migliore in cui quella pianificazione possa assicurare il maggior benessere possibile al maggior numero di individui.
Si scopre così che quel modello di concorrenza perfetta esiste solo nella testa, e nei testi, degli economisti che lo hanno studiato ed elaborato. Il che non vuol dire che quel modello sia inutile, anzi.
Ma significa che per comprendere il funzionamento della realtà, e non della teoria, si deve muovere da un punto di partenza diverso. E da una domanda diversa.
I “dati” (intesi come numeri, valori) da cui prende avvio il calcolo economico presupposto dagli economisti non sono mai “dati” (nel senso di forniti) per l’intera società ad una singola mente, o ad un singolo ente.
Le singole, specifiche, circostanze che muovono gli operatori nel mercato, infatti, non sono mai interamente conosciute a livello aggregato, accentrato, ma sono invece disperse tra le migliaia di produttori ed i milioni di consumatori.
Si pensi al funzionamento di Wikipedia. Dopotutto le voci enciclopediche che vi si trovano sono la realizzazione non di un gruppo accentrato di soggetti, ma sono elaborate, su base volontaria, da una miriade di individui che, ritenendo di possedere informazioni incrementali su quel fatto storico, su quel personaggio, aggiornato, integrano, migliorano, correggono quella singola voce.
Lo stesso modello di acquisizione incrementale della conoscenza presente capillarmente a livello sociale ed individuale è presente nel mondo dell’informatica: per esempio Linux, come sistema operativo che fa funzionare smartphone, automobili, computer, supercomputer, beneficia, essendo un sistema aperto, delle informazioni e dei miglioramenti che ciascun utente, in possesso di conoscenze informatiche adeguate, può contribuire a condividere.
I modelli alternativi di enciclopedia tradizionale, o di software c.d. chiusi, devono fare necessariamente affidamento sulla massima conoscenza disponibile a chi, a livello accentrato anziché decentrato, redige quella voce enciclopedica o elabora quell’algoritmo o quel programma.
Torna quindi utile quella distinzione tra costruttivismo ed evoluzionismo sulla quale Friedrich von Hayek tracciò la linea di demarcazione tra il liberalismo continentale e quello discendente dai moralisti scozzesi.
Per i costruttivisti la realtà sociale è costruita in modo antropomorfico: la ragione elabora le istituzioni sociali e se del caso le sostituisce con altre ritenute non tanto maggiormente efficienti ma più coerenti con quel modello astratto di razionalità.
Per gli altri, gli evoluzionisti, le istituzioni sociali, dalla lingua al diritto, dalla moneta al mercato, sono in realtà frutto della cooperazione spontanea di infinite interazioni individuali e le regole che si evolvono non sono necessariamente il frutto di un disegno consapevole.
Nella linguistica si deve a Benjamin Lee Whorf l’elaborazione del concetto di crittotipo: regole implicite nell’uso di una lingua che non siamo in grado di verbalizzare sebbene impariamo ad applicare correntemente, come ancora prima ricordava il filosofo scozzese Francis Hutchenson.
Il mondo del diritto e delle altre scienze sociali condividono lo stesso carattere della lingua.
Nella realtà, e quindi al di fuori dei modelli elaborati, il problema che si pone, quindi, non è mai quello di accertare se sia possibile ottenere dati beni e servizi ad un determinato costo ma, piuttosto, quello di individuare quali merci o servizi siano in grado di soddisfare i bisogni dei consumatori nel modo più economico possibile (F.A. von Hayek, Individualism and Economic Order, Routledge & Kegan, 1949, 33 ss.).
Rispetto alla dimensione statica del modello si contrappone quindi una dimensione necessariamente dinamica, i cui esiti, ovvero i cui risultati, non possono essere predeterminati o noti in anticipo. In questo senso, quindi, la concorrenza non può che esser imperfetta: “solo ciò che non è stato ancora previsto, e a cui non si è già provveduto, richiede nuove decisioni.
Se tale adattamento non fosse più necessario, se in un qualunque momento dovessimo venire a sapere che tutti i cambiamenti sono cessati e che le cose continueranno per sempre ad andare esattamente come vanno ora, non ci sarebbe più da risolvere alcun problema relativo all’uso delle risorse” (F.A. von Hayek, ibidem).
Sarebbe la fine dell’economia, ovvero il superamento della condizione di imperfezione tipicamente umana perché si sarebbe raggiunto il regno terreno della perfezione.
Il reale fondamento del favore nei confronti della concorrenza, quindi, non è il miraggio di una concorrenza perfetta, ma la consapevolezza che la concorrenza è uno strumento, anzi: il miglior strumento, che sia dato alla società per poter avanzare il livello di conoscenza. La concorrenza favorisce la conoscenza. Ma vale anche la reciproca: la conoscenza, in ogni ambito, ha bisogno di concorrenza.
Si dirà, quindi, che questa consapevolezza pare rinunciataria perché ci costringe a far di conto con le imperfezioni della concorrenza così come la conosciamo.
No, tutt’altro. Impone piuttosto di non abdicare mai al tentativo di migliorare l’esistente, ferma restando la consapevolezza che si tratta di un’opera che non verrà mai esaurita o ultimata.