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Newsletter Libdem n. 22 – 12/08/2023

Qualche cosa sul Governo

In settimana, sul mercato, è caduto definitivamente il palco. I segnali c’erano già tutti ed erano copiosi (uno su tutti: il divieto, unico nel mondo, alla produzione di carne coltivata), ma da più parti si è accostata la destra di Giorgia Meloni alle categorie più edificanti della politica (abbiamo persino sentito accostare Giorgia Meloni al liberalismo).

Le misure di questa settimana sono misure da destra sociale. Una destra conservatrice, tradizionalistica e comunitaria (in senso nazionalistico e sovranista) che cerca di trarre i propri consensi con ricette che tendono a chiudere il mercato.

L’ha detto l’altro ieri Fabio Rampelli, vice presidente della Camera di Fratelli d’Italia: “FdI è la destra sociale”. Aggiungendo: “Adesso tassiamo pure altri extraprofitti”.

Eloquente anche quanto sostenuto da Rampelli sulle ragioni del basso livello dei salari in Italia: “In Italia c’è un grosso problema di salari bassi rispetto alla media europea e di lavoro povero e precario figlio dell’ubriacatura di certe furbesche esternalizzazioni”.

Accusare le esternalizzazioni all’estero dei bassi livelli salariali all’interno è un altro modo di prendere di mira quello che nella testa del governo rimarrà sempre “globalismo” da ostacolare in tutti modi.

Quando sentiremo un politico parlare di creare in Italia condizioni migliori per le imprese nazionali e per attrarre imprese estere sarà sempre troppo tardi.

Banche

Una premessa d’obbligo: questa idea che le banche sino rimaste “sorde” rispetto alle difficoltà a cui si è trovato di fronte chi ha visto crescere il saggio di interesse avendo stipulato anni fa un mutuo a tasso variabile è davvero assurda e meschina.

Anzitutto, va detto che chi si trova oggi in difficoltà può pur sempre ricorrere ad alcuni rimedi già previsti dalla legge, come ricordato nel mese di luglio dall’ABI.

Molte banche, del resto, per evitare di far entrare in default il rapporto di credito, si erano già organizzate per allungare o sospendere l’ammortamento, riducendo il costo della rata.

Ma il punto è un altro: cosa dovremmo dire a chi anni fa, con i tassi di riferimento molto bassi, si indebitò a tasso fisso, scontando per definizione un saggio di interesse più alto (perché, come abbiamo già avuto occasione di dire, la stabilità costa)? Dovremmo dirgli: hai fatto male, perché se te ne stavi a tasso variabile risparmiavi e in caso di rialzo ci avrebbe pensato lo Stato.

La fine del mercato.

Non stupisce, quindi, la tassazione sugli “extraprofitti” delle banche.

Una locuzione – “extraprofitti” – pericolosissima, perché “extra” sottende un chiaro giudizio morale: è extra ciò che è eccessivo, ingiusto, non meritato.

E chi lo decide cosa è “extra”?

L’esecutivo, con decretazione d’urgenza. Il Parlamento interverrà dopo, magari con voto di fiducia. E siccome il decreto legge non è una proposta di legge, ma già un atto avente forza di legge, che sia l’esecutivo a stabilire cosa è “extra” e cosa no, ci fa sinceramente preoccupare per il futuro.

No taxation without representation. Non scordarselo mai.

Non a caso Giorgia Meloni ha definito questi profitti (senza nemmeno sapere di quanto si trattasse esattamente) proprio “ingiusti”: troppi soldi, troppo mercato, troppa libertà.

Ma che cosa intende, tecnicamente, il Governo per “extraprofitti”?

Si tratta della differenza tra i ricavi della banca per gli interessi passivi applicati alla propria clientela e i costi sostenuti per gli interessi attivi riconosciuti alla propria clientela e ai propri finanziatori per la raccolta di liquidità.

Una forchetta che in questi mesi si è allargata perché i tassi di riferimento sono cresciuti, alimentando previsioni di ricavi da record per tutte le banche perché – mentre gli interessi passivi sui rapporti di credito vengono adeguati in tempo praticamente reale alle scelte di politica monetaria della BCE – gli interessi che le banche riconoscono ai clienti sulle giacenze di conto corrente e sulle altre forme di raccolta di liquidità hanno tempi di adeguamento molto più lenti (almeno sui rapporti ordinari).

Ma dove sta scritto che sui semplici depositi le banche, nel 2023, debbano riconoscere tassi di interesse equivalenti a quelli scontati dai clienti sui soldi presi a prestito? Gli interessi attivi da rendita di deposito non sono più applicati in misura significativa da tempo.

Per ottenere una remunerazione il correntista deve investire e assumersi un rischio. Può farlo con prodotti molto semplici come i c.d. pronti contro termine.

Ma perché la banca dovrebbe assumersi il rischio di insolvenza del cliente a tasso basso, mentre il cliente dovrebbe ricevere una remunerazione equivalente a rischio pressoché inesistente (cioè il rischio che la banca fallisca e che i meccanismi di risoluzione e di tutela dei depositi non coprano la perdita) sul semplice deposito di somme?

E poi, nessuno che consideri che per la banca acquistare denaro da dare in prestito ha un costo oggi più alto? E che lo spread che la banca applica riflette un maggior rischio di controparte (cioè di insolvenza del cliente), dipendente anche, purtroppo, proprio dall’aumento del costo del denaro.

Il 25 giugno 2020 l’OCSE ha presentato i dati aggiornati dell’analisi che periodicamente produce sull’educazione finanziaria nel mondo. L’Italia, si collocava ancora sotto la media, con un punteggio di 11,1.

Emerge in tutta la sua drammatica evidenza la scarsa competenza finanziaria degli italiani.

E del loro Governo.

In settimana il Wall Street Journal ha titolato che la tassa italiana dimostra la volontà di trattare le banche come delle utilities.

Ci fermiamo qua.

Mancano soldi nelle casse dello stato: ecco perché il decreto banche

L’altro ieri Federico Fubini ha messo in evidenza che l’aspetto che forse più fa riflettere nel decreto sulla tassazione delle banche si trova all’art. 7, quello che stabilisce la destinazione del relativo gettito.

In quell’articolo il Governo afferma che le maggiori entrate derivanti dal provvedimento saranno — tra l’altro — «destinate per interventi volti alla riduzione della pressione fiscale di famiglie e imprese».

Si tratta di una destinazione molto diversa da quella scelta dal Governo socialista spagnolo, che introdusse l’anno scorso una misura analoga per sostenere il caro bollette.

In sostanza, in Italia, oltre ai previsti sussidi per chi è entarto in difficoltà con il mutuo, l’imposta sulle banche dovrebbe finanziare la colonna portante della politica economica del governo: la riforma fiscale, con il taglio delle aliquote sui redditi delle persone fisiche, la conferma della riduzione del cuneo fiscale (per ora scade a fine anno) e — sempre che resti nei piani — un’estensione della flat tax per il lavoro autonomo.

Per non dire che il prelievo sulle banche varrà solo sugli ultimi due anni, mentre il taglio delle tasse lo si vorrebbe permanente.

Ma questo non sarebbe il primo, né l’ultimo governo che cerca di coprire ammanchi permanenti con entrate estemporanee. Più urgente è chiedersi cosa ci dice questo episodio della finanza pubblica oggi in Italia.

Tutto ciò suggerisce che il Governo sia in cerca di soldi, soldi che servono urgentemente per far tornare i conti della manovra di bilancio d’autunno.

La Ragioneria informa infatti che nei primi sei mesi dell’anno il fabbisogno dello Stato è salito a 95 miliardi di euro, ben 52 miliardi in più rispetto a un anno fa. Possibile che il saldo fra entrate e uscite correnti del bilancio sia peggiorato di più del doppio, rispetto alla prima metà del 2022?

Una decina di miliardi di minori entrate vengono, in primo luogo, dai crediti d’imposta dei bonus-casa che ora molti stanno usando per pagare meno tasse: si sapeva, era previsto, ora succede.

Altri 19 miliardi di fabbisogno in più registrati a metà anno si spiegano con il ritardo nell’erogazione della terza rata del Piano nazionale di ripresa. Che tra breve però arriverà.

Resta un’altra ventina abbondante di miliardi di rosso in più nei saldi di cassa: quella parte lì è in cerca d’autore. E soprattutto in cerca di soluzione, ora che il tempo stringe per realizzare le promesse elettorali dei tagli di tasse da realizzare subito in legge di bilancio.

Le misure contro le tariffe dinamiche dei voli

Dicevamo di un Governo davvero allergico ai meccanismi di mercato.

L’art. 1 del decreto “Assetti e patrimoni” considera una “pratica commerciale scorretta”, e come tale la vieta, la fissazione dinamica delle tariffe da parte delle compagnie aree in relazione al tempo della prenotazione, laddove, congiuntamente:

  1. venga applicata su rotte nazionali di collegamento con le isole;
  2. venga applicata durante un periodo di picco di domanda legata alla stagionalità o in concomitanza di uno stato di emergenza nazionale;
  3. porti ad un prezzo di vendita del biglietto o dei servizi accessori del 200% superiore alla tariffa media del volo.

Il Governo interviene così sui tanto criticati algoritmi che stabiliscono i prezzi in funzione del tempo della prenotazione e della pressione della domanda, interponendosi così ai meccanismi di mercato, il che ha portato Ryanair, fra gli altri, a minacciare di abbandonare le rotte sulla penisola.

Il cosiddetto “prezzo dinamico” è una strategia di vendita applicata in molti settori commerciali, tra cui quello dei vettori del trasporto aereo: le tariffe sono regolate da un algoritmo che tiene conto di diversi fattori, a partire dalla domanda di acquisto. Tuttavia, in alcuni casi segnalati dal Governo, questa “revenue management” ricorre a tecniche che applicate su voli nei periodi di forte domanda finiscono per essere un ostacolo alla mobilità dei viaggiatori. Un esempio: al crescere delle richieste per una determinata tratta vengono chiuse le classi di volo più basse che restano nascoste al sistema di prenotazione.

Bruxelles dovrà ora valutare se il decreto violi quanto stabilito dal regolamento europeo del 2008 in materia di trasporto aereo che, all’articolo 22 (Libertà in materia di tariffe), dice chiaramente che «i vettori aerei comunitari e, per reciprocità, i vettori aerei dei paesi terzi fissano liberamente le tariffe aeree passeggeri e merci per i servizi aerei intracomunitari».

Inutile dirvi come la pensiamo.

Perché è sbagliato intervenire sui prezzi dei biglietti aerei: un contributo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo del nostro iscritto Lorenzo Gerosa sulla misura adottata dal Governo.

Estate: tempo di viaggi aerei e di polemiche stagionali su overbooking e caro-biglietti. Quest’anno c’è una novità. Vista “la straordinaria necessità e urgenza  di adottare misure a tutela degli utenti dei servizi di trasporto aereo, i quali, a causa dell’esponenziale aumento delle tariffe, non riescono, nei periodi di picco della domanda , a fruire dei servizi di continuità territoriale”, nell’ultimo Decreto Legge, tra le varie misure, il governo ha deciso all’art.1 di mettere mano ai prezzi in un settore – il trasporto aereo, appunto – che per sua stessa natura travalica i confini nazionali e ormai da molto tempo, per l’importanza economica e strategica degli interessi in gioco, ha una connotazione globale termine che sembra provocare ogni volta l’orticaria ai sovranisti di casa nostra.

Solo fermandosi al primo capoverso del decreto emergono due considerazioni: una di carattere temporale e l’altra di logica.

La prima è che risulta difficile intravedere oggi la straordinaria necessità e urgenza quando ad agosto ormai tutti i consumatori potenziali fruitori del trasporto aereo devono aver già effettuato la prenotazione e pagato il volo delle loro vacanze e se non lo avessero ancora fatto difficile possano trovare posto e nel caso non a prezzi economici. Classico caso di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati.

La seconda è invece una palese contraddizione in termini, visto che è proprio in un momento di picco della domanda che i prezzi tendono a salire anche a compensazione, soprattutto nei casi di continuità territoriale, del basso riempimento degli aerei con conseguente riduzione dei prezzi in bassa stagione, in gergo yield management ovvero gestione della resa.

In parole semplici, per la compagnia aerea ogni singolo posto di un volo lasciato vuoto è come uno yogurt che dopo la data di scadenza deve essere buttato e non ha più valore.

Queste politiche non sono nate oggi ed il trasporto aereo attuale è frutto di decenni di evoluzione del mercato che ha avuto inizio nella seconda metà degli anni ‘80 con la deregulation negli USA e – molto più importante per noi consumatori europei – con la sentenza Nouvelles Frontières, quando la Corte di Giustizia ha di fatto esteso anche al settore dei trasporti aerei e marittimi le regole di concorrenza applicabili ad altri settori.

La sentenza ha rappresentato uno dei pilastri che ha portato alla liberalizzazione di questo settore, fondamentale per la realizzazione del mercato unico. Fino ad allora, considerando che il cielo è l’espressione verticale della sovranità nazionale, il sorvolo, lo scalo tecnico, l’atterraggio con sbarco di merci e passeggeri in un altro Stato erano regolati da specifici accordi e le compagnie di bandiera erano viste come un’estensione del paese come gli Azzurri, le Frecce Tricolori o la Ferrari.

Questo contesto comportava una situazione di mercato protezionistico dove nelle tratte interne veniva consentita una riserva a vantaggio delle compagnie di bandiera e loro controllate (tipo ATI per capirci) e nei collegamenti internazionali le rotte erano invece regolate da accordi bilaterali tra gli Stati volti a distribuire il traffico tra le proprie compagnie nazionali con soprattutto la convalida delle tariffe da parte dei due governi coinvolti.

Tutto questo è stato spazzato via non senza resistenze e difficoltà nell’arco di dieci anni dal 1983 al 1992 con la liberalizzazione completa delle tariffe, l’eliminazione di ogni restrizione alla determinazione della capacità operativa e la totale libertà di accesso alle rotte a tutti i vettori europei con la libertà di cabotaggio all’interno degli Stati membri.

La nascita e lo sviluppo delle Low Cost è una delle conseguenze di questa evoluzione del mercato e chi non si è adattato è sparito dai radar nonostante variegati tentativi di salvataggi nazionali. La vicenda di Alitalia è emblematica in questo caso dove nel corso degli anni governi di colori diversi hanno cercato di salvare una Compagnia proprio in nome dell’italianità invece di investire in un modello che fosse più rispondente alle nuove esigenze del mercato.

Questo processo di liberalizzazione con una politica di libera fissazione dei prezzi ha portato quindi tutte le compagnie aeree ad utilizzare tecniche per ottimizzare il riempimento di ogni volo tramite un corretto pricing per attrarre i clienti. Di sicuro la tecnologia aiuta le compagnie aeree ma anche il consumatore basti pensare ai comparatori di tariffe per trovare la migliore offerta presente sul mercato.

A meno che non si possa dimostrare qualunque forma di cartello o profilazione dei clienti, pensare quindi di tornare agli anni ‘80 dove un governo può imporre una politica tariffaria vietando “la fissazione dinamica delle tariffe da parte delle compagnie aeree modulata in relazione al tempo della prenotazione”, appare non solo anacronistico ma potenzialmente dannoso proprio per i consumatori che si vorrebbero tutelare, magari introducendo il concetto di prezzo medio che ha poco senso quando sono molti i fattori a contribuire a formare la tariffa e dove alla fine verrebbero penalizzati proprio quei clienti che devono usare l’aereo in bassa stagione per tornare dalle proprie famiglie nelle isole invece di andare in vacanza.

Infatti, è molto probabile che queste norme, a prescindere dei problemi di compatibilità con la normativa comunitaria, non avranno come effetto quello della riduzione dei prezzi, visto che – come affermato dall’AD di Ryanair Eddie Wilson – “per abbassare i prezzi occorre aumentare la capacità, cioè aumentare i posti a disposizione. Le persone che stanno consigliando Urso non sanno nulla del settore aereo, non sanno nulla di economia”. Difficile dargli torto e se dovesse ridurre l’impegno di Ryanair in Italia si aggiungerebbe al danno la beffa.

Certo, dopo quelli della decrescita felice ci mancavano solo i dirigisti sovranisti per distruggere un giocattolo costruito in tanti anni con un processo lungo e complesso e che ha portato milioni di persone a poter usufruire del trasporto aereo prima precluso a una stragrande parte di consumatori.

Ormai il governo con questi provvedimenti, di cui quello sul trasporto aereo è solo una componente, ricorda sempre di più la favola della rana e dello scorpione: è nella loro natura essere così e nonostante un inizio incoraggiante sul piano internazionale probabilmente per accreditarsi con i nostri alleati si mostrano adesso per quello che sono, dirigisti ed ostili alla concorrenza ed al mercato.

Di sicuro molto lontani da una qualunque sensibilità liberale a prescindere dal risultato del test della FLE.

Taxi

Rispetto alla bozza che era dato conoscere fino all’approdo in Consiglio dei Ministri, il decreto definitivo ha visto l’eliminazione della misura più discutibile: la possibilità di cumulo per i tassisti della licenza attuale con una seconda licenza, da esercitare anche mediante sostituzione alla guida.

Le misure adottate adesso sono tre:

  • la possibilità per i comuni di rilasciare, “in via sperimentale” e temporanea (al massimo 24 mesi), licenze aggiuntive ai tassisti già in servizio, per fronteggiare lo straordinario incremento della domanda legato a grandi eventi o a flussi di presenze turistiche superiori alla media stagionale; i titolari di tali nuove licenze potrebbero poi “valorizzarle” mediante affidamento, anche a titolo oneroso, a terzi, purché, a loro volta, già in possesso di abilitazione, o mediante gestione in proprio, anche ricorrendo alla sostituzione alla guida;
  • la possibilità per i comuni capoluogo di regione, quelli capoluogo sede di città metropolitane e i comuni sede di aeroporto internazionale, di bandire il rilascio, a titolo oneroso, di nuove licenze, in misura non superiore al 20% delle licenze già rilasciate, da assegnare a soggetti in possesso dei requisiti per divenire titolari di licenza, ma non ancora possessori;
  • la sanatoria della c.d. seconda guida, nella prassi ripetutamente posta in essere, ma fino ad oggi consentita dalla legge quadro solo a determinate condizioni.

Ha dell’incredibile che il cumulo sia stato eliminato a seguito delle proteste dei tassisti.

Cioè, ha dell’incredibile che i tassisti proprio su questo abbiano minacciato scioperi.

Che Paese.

Giustizia

Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali, l’ha denominata la più sostanziosa e micidiale estensione del potere di intercettazione di conversazioni fra privati della storia repubblicana.

Il regime di intercettazione, già eccezionale quando si sospetti l’associazione mafiosa, viene ora esteso anche ai reati comuni nei casi in cui il PM sospetti che il ricorso a “modalità mafiose”.

La norma è stata spiegata proprio come una specie di sanatoria: siccome una sentenza della Cassazione dell’anno scorso ha ritenuto abusive le intercettazioni eseguite su tali presupposti, la norma mira a legittimare tali interferenze per salvare le tesi dell’accusa nei processi in corso.

Una cosa degna dell’ex ministro Bonafede.

Elezioni europee 2024

Avrete visto che gli ultimi sondaggi sono impietosi: stando ai dati di oggi i liberaldemocratici che al Parlamento Ue sono raggruppati nel gruppo Renew Europe non eleggeranno in Italia alcun deputato.

I tre partiti che attualmente fanno parte di Renew Europe (Italia Viva, Azione e Più Europa) non supererebbero la soglia di sbarramento e l’Italia non avrebbe alcun deputato di quest’area politica.

Non ci interessano le liti, i leaderismi, le rivalità, i dissapori personali, l’astio in quest’area politica: a noi interessa mandare una rappresentanza liberaldemocratica in Europa.

Non riuscirci, con le sfide che attendono l’Unione nei prossimi anni, sarebbe imperdonabile.

I Conservatori di Giorgia Meloni e l’Europa

Cosa pensa il gruppo ECR guidato da Giorgia Meloni dell’Europa?

Pensa che l’Unione europea abbia “esagerato”. Che sia diventata troppo “centralizzata”, troppo “ambiziosa” e troppo lontana dai cittadini comuni.

Per questo il gruppo ECR promuove un’agenda che definisce “eurorealista”, che si baserebbe su:

  • una profonda riflessione sullo stato attuale dell’Europa che porti a una revisione fondamentale del funzionamento dell’Unione europea;
  • il rifiuto di visioni federaliste che implicano maggiore integrazione e “più Europa”;
  • una visione alternativa di tipo confederale, di un’Unione europea come “comunità di nazioni” che cooperano in istituzioni confederali condivise in aree in cui hanno interessi comuni, mantenendo ciascuna la propria sovranità e autonomia.

Non è la nostra visione per una semplice ragione: la confederazione, che lascerebbe i singoli Stati sovrani assoluti su tutte le materie, anche le 5 che oggi sono oggetto di cessione di sovranità come il mercato comune, costituirebbe un grosso passo indietro, creerebbe problemi di gestione della moneta unica, chiuderebbe il mercato comune per come oggi lo conosciamo, darebbe ancora meno chance ad una politica estera comune e di difesa europea, impedirebbe la condivisione di fondi come il PNRR e l’emissione di debito comune come i c.d. corona bond.

In una parola, di fronte alle sfide di oggi (Cina, Russia, crisi migratorie, climatiche e finanziarie) la confederazione ci renderebbe più deboli e ci lascerebbe senza paracadute.

La Russia di Putin riscrive la Storia

Lunedì le autorità russe hanno presentato alcuni nuovi libri scolastici pensati per l’insegnamento di storia della Russia ai ragazzi e le ragazze delle superiori, di circa 17 anni.

I capitoli relativi agli eventi recenti, più o meno dal 1970 in poi, sono stati completamente riscritti rispetto alle edizioni precedenti ed è stato aggiunto un nuovo capitolo per presentare i fatti successivi al 2014, tra cui anche l’invasione russa dell’Ucraina, secondo il punto di vista della propaganda promossa dal governo di Vladimir Putin.

Fin dall’inizio della guerra, infatti, la Russia ha cercato di controllare il modo in cui la guerra stessa è presentata ai propri cittadini dai canali ufficiali e dai media. La versione russa dei fatti è stata descritta da diversi giornali occidentali come un «universo parallelo» e una «realtà differente».

Le foto di alcune pagine dei nuovi libri scolastici sono state pubblicate online da vari media russi filo-governativi, tra cui l’agenzia di stampa statale RIA Novosti.

Il capitolo relativo alla guerra in Ucraina è intitolato: «La Russia oggi: l’operazione militare speciale», e cita quindi l’espressione utilizzata dalla propaganda per riferirsi all’invasione (in Russia non si parla di guerra, ma di «operazione speciale»).

I paragrafi che seguono presentano elementi ricorrenti nella narrativa promossa dal governo di Putin (ma infondati), come la «rinascita del nazismo» e la «falsificazione della Storia», mentre la volontà di destabilizzare la situazione interna della Russia è descritta come «un chiodo fisso» dei paesi occidentali.

Il libro sostiene inoltre che l’«operazione speciale» avviata dalla Russia sia stata una mossa necessaria per «mettere fine alle ostilità in Ucraina», una ricostruzione falsa della realtà. Inoltre l’Ucraina viene spesso definita come uno stato «nazista» e «artificiale», che dovrebbe far parte della Russia.

Il libro presenta in maniera fuorviante anche alcune conseguenze che la guerra sta avendo sull’attuale situazione in Russia: per esempio, sostiene che la decisione di molte compagnie straniere di sospendere le proprie attività nel paese, dovuta anche alle sanzioni economiche imposte dai paesi occidentali, abbia favorito l’apertura di nuove possibilità di mercato per le aziende russe, trasformando il paese in una «terra ricca di opportunità».

Il libro della settimana (perché noi i libri li leggiamo, Ministro)

Capitali coraggiosi, del nostro vicesegretario Bepi Pezzulli.

Uno dei miti più resistenti nell’immaginario economico è che i fondi d’investimento finanzino buone idee o imprenditori creativi.

La realtà, molto più sensata, è che la finanza privata investe in industrie trasformative, che nel medio-lungo termine possano disporre di un vantaggio competitivo rispetto all’insieme del mercato. Piuttosto resistente è anche l’idea che il successo imprenditoriale dipenda esclusivamente da iniezioni di capitale di rischio nell’impresa.

La realtà, molto meno intuitiva, è che la finanza privata attiva soprattutto leve non finanziarie, quali la disciplina di mercato, il trasferimento di know-how e la cultura d’impresa.

Questo saggio racconta la trasformazione dell’economia attraverso il finanziamento di tecnologie dirompenti e discute il ruolo degli investitori quale agenti sistemici dell’economia, illustrando le tecniche di uso del capitale privato nel contesto della risoluzione delle crisi determinate da fasi economiche recessive e da shock esogeni.

 

 

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