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Fisco: questo non è il modo di fare una riforma seria

Il piatto forte della legge di bilancio che rinvia al 2026 la discesa del debito pubblico sotto il 140% del PIL e quella del deficit sotto il tetto del 3%, è la somma per oltre 14 miliardi di deficit risultante dai 10 miliardi della conferma per un solo anno del taglio contributivo ai lavoratori dipendenti entro i 35 mila euro lordi di reddito annuo, e di poco più di 4 miliardi di minor gettito IRPEF per l’innalzamento fino ai 28 mila euro di redditodell’aliquota nominale del 23%.

È il primo modulo della completa riforma fiscale entro fine legislatura, dice il governo.

Ma, considerando le risultanti dell’intervento, vengono enormi dubbi. Una riforma fiscale organica in un Paese come l’Italia deve per forza partire da una visione d’insieme delle sfide cui vuole rispondere. Su1100 miliardi di spesa pubblica, abbiamo una spesa per welfare e prestazioni assistenziali superiore al 55%, che ci pone tra i 10 Paesi al mondo con maggior percentuale sul PIL. Eppure welfare, assistenza e politiche del lavoro hanno determinato un aggravamento dei gap socio-territoriali del Paese.

Ma tutti chiedono di aumentarne la spesa, non di rivederne i criteri. Abbiamo 41 milioni di contribuenti su 59 milioni di residenti, ma nelle dichiarazioni IRPEF presentate nel 2021 sui redditi 2020 e processate da AgEntrate nel 2022, 10 milioni dichiaravo reddito zero e il 79% dei 31 milioni residui dichiarava redditi sotto 28 mila euro lordi l’anno. AlNord i contribuenti erano pari al 74,2% dei residenti e il 58,1% versava almeno un euro di IRPEF, al Centro le percentuali erano del 70,5% e del 52%, al Sud i contribuenti erano solo il 61% della popolazione e iversanti addirittura solo il 39,8%.

Cifre non credibili.

Con l’effetto paradossale che nel 2021 il 42% dei contribuenti pagava solo l’1,9% del gettito IRPEF, l’80% ne pagava solo il 27,9%, mentre il 72% dell’IRPEF veniva dal 20% di soggetti con redditi oltre i 29 mila euro lordi. Su 16 milioni di pensionati quasi il 46% non ha versato in tutto o in parte versato almeno 15 anni di contributi né pagato imposte, ed è a carico della minoranza assoluta di contribuenti IRPEF versanti.

Se poi consideriamo l’IVA, in Lombardia circa 10 milioni di residenti versavano nel 2020 38,5 miliardi d’imposta, l’intero Sud con oltre 20 milioni di abitanti solo 11,3 miliardi. Queste paurose anomalie di che cosa sono frutto? Della continua erosione dell’imponibile IRPEF attraverso la somma sconsiderata di bonus a tempo che hanno privato di significato le aliquote nominali, distorcendole con enormi scaloni di imposta in prossimità delle soglie di reddito oltre le quali si perdevano i bonus.

Dell’introduzione del forfait per gli autonomi via via esteso sino agli 85 mila euro di reddito, che ha aggravato l’iniquità rispetto al lavoro dipendente e pensionati ma ha anche introdotto un vantaggio ingiustificato rispetto agli autonomi che al forfait non sono ammessi, cioè quelli con maggior costo ininvestimenti e struttura che grazie producono più valore aggiunto. Infine l’ISEE, chiave per l’accesso facilitato a welfare e assistenza ma facilmente aggirabile, e che ha infatti spinto molti al minor reddito dichiarato. Una riforma fiscale organica dovrebbe partire questi squilibri.

Come pagheremo welfare, assistenza e pensioni fuori controllo e inefficaci, avendo totalmente azzerato il principio del beneficio come base dell’imposta e realizzando invece un sistema basato solo su una falsata capacità contributiva, per cui è una minoranza ristrettissima di italiani a pagare sanità, istruzione e integrazione da fiscalità generale di pensioni e assistenza all’80% della popolazione?  Si vuole abbassare l’IRPEF, chi scrive è daccordo. Ma è credibile e sostenibile tale ipotesi solo rivedendo radicalmente la spesa pubblica improduttiva e aprendo a forme privatistiche di finanziamento del welfare da parte dei cittadini, come infatti prevedeva l’unica proposta seria di Flat Tax IRPEF mai presentata, elaborata dal professor Nicola Rossi e dall’Istituto Bruno Leoni.

E in tale quadro aumentare l’IVA, mutare radicalmente IMU-TASI e addizionali locali trasformandole in un’unica tassa sui servizi basata sul loro consumo reale, e in libera concorrenza tra territori. Nonché aggredendo le fiscal expenditures che sul bilancio pubblico pesano come e più dell’evasione fiscale. E accrescendo le leve fiscali a favore degli investimenti e della produttività, ciò che manca all’Italia da 30 anni. Non c’è traccia di questo nella riforma fiscale di cui si parla oggi. Nemmeno nel suo primo modulo. Che infatti l’abolisce l’ACE che favoriva la capitalizzazione delle imprese, nel 2020 con agevolazioni per 6,7 miliardi al mondo finanziario e assicurativo, e per 4,7 miliardi alle attività manifatturiere: pura miopia, mentre la produzione industriale è al -4.2% anno su anno e gli investimenti scendono.

E quanto all’accorpamento delle due aliquote IRPEF, sommando bonus esistenti, bonus annuale contributivo, franchigia di 1200 di integrazione dei redditi dipendenti, e taglio delle detrazioni sopra i 50 mila euro lordi, gli effetti reali sono questi. Si alza ulteriormente la cifra dei non versanti, visto che per i dipendenti il reddito che comporta zero euro di IRPEF versata salìrà a 13 mila euro, l’aliquota reale IRPEF supererà il 10% solo oltre i 21mila euro, e solo oltre i 33mila l’aliquota reale supererà il 20%. E non verrà meno neanche la disparità di prelievo tra dipendenti, autonomi agevolati e autonomi non agevolati: per fare un esempio, con 30 mila euro di reddito lordo un dipendente pagherà di IRPEF 5340 euro, un autonomo forfettario 4500 euro, e un autonomo ordinario 6685 euro.

Serviva davvero far questo, in deficit e per un solo anno?

di Oscar Fulvio Giannino

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