L’era dei tassi bassi e della tolleranza è finita e sui mercati torna a crescere la percezione del rischio-Italia. Ma mentre la Spagna centra in anticipo i target, da noi si considera prudente un Def che lima di pochi punti le cifre fuori controllo
La figura letteraria del genio incompreso, a disagio in un mondo superficiale che non apprezza la sua profondità d’animo, risale al Romanticismo e un personaggio esemplare è il giovane Werther, protagonista del libro di Goethe, i cui dolori divennero inconsolabili. L’Italia ha preso di sé questo ruolo goethiano e qualsiasi scelta bislacca o bizzarra dei propri governi disapprovata dal resto del mondo viene presentata come frutto di esigenze speciali e intuizioni formidabili che l’arido e a volte ostile mondo esterno non capisce.
Prendiamo il Mes, La premier Meloni ha dichiarato che alcune delle sue perplessità sono condivise dagli altri Stati, Peccato che tutti l’abbiano ratificato salvo noi che evidentemente dobbiamo aver colto pericoli gravi e reconditi sfuggiti agli altri. Questo nostro atteggiamento è ritornato alla superficie in occasione della presentazione da parte della Commissione europea della sua proposta di riforma del Patto di Stabilità, il famoso impegno a non superare il 3% del Pil di deficit annuale e del 60% nel rapporto debito pubblico/Pil.
Il nuovo schema di Bruxelles prevede una negoziazione con i governi nazionali su base quadriennale che evidenzi un percorso di riduzione del deficit e del debito e consenta alla Commissione di esercitare una notevole influenza sul come arrivare agli obiettivi, con una reale cessione di sovranità da parte dello Stato membro. E facile prevedere che i negoziati potrebbero essere piuttosto duri e in caso di resistenze da parte dell’Italia o di deviazioni dal percorso prestabilito, oltre alla procedura di infrazione si innesterà pure la reazione negativa dei mercati.
Già, benedetti mercati. Il periodo di bassi tassi di interesse e di tolleranza durante la pandemia sembrano aver rimosso la fastidiosa verità per la quale quando i creditori di un Paese dubitano della sua solidità tendono a chiedere interessi più alti, peraltro in un periodo in cui i tassi sono già in crescita. Lo stupore con il quale sono state accolte le analisi di Goldman Sachs e Nomura sui rischi congeniti del debito pubblico italiano e sulla maggiore appetibilità di investimenti in Bonos (i titoli pubblici spagnoli) è l’indice di come la classe dirigente italiana viva in una bolla. Madrid è governata da una coalizione di sinistra-sinistra (socialisti ed eredi di Podemos), eppure il ministro delle Finanze ha appena annunciato che raggiungerà il target del deficit al 3% del Pil con un anno di anticipo, nel 2024.
Niente di tutto questo a Roma, dove è stato considerato “prudente” un Def che riduce il nostro debito pubblico dal 142,1% rispetto al Pil nel 2023 solo al 140.4% nel 2026. Un percorso che un qualsiasi stormir di fronde dell’economia mondiale può cambiare in un batter d’occhio.
E allora desta ancor più perplessità una riga delle tabelle che si trovano nel Def, titolata “introiti da privatizzazioni”: 2022, zero: 2023, zero: 2024, 0,01% del Pil (circa 200 milioni di euro); 2025, 0,09%; 2026, 0,04 %. In pratica, niente.
Quale è l’ossessione dei nostri politici che preferiscono correre il rischio di pagare miliardi di euro in più in interessi sul debito (e quindi tagliare le pensioni del ceto medio, come già stanno facendo, non abbassare le tasse, non investire in sanità e istruzione) che privarsi di una frazione dell’enorme proprietà in mano dello Stato o degli altri enti pubblici? Ridurre il debito pubblico grazie all’introito delle vendite, infatti, avrebbe anche un benefico effetto di percezione da parte dei mercati, che ci premierebbero con uno spread rispetto ai Bund tedeschi meno elevato, oggi di circa 190 punti base ma in previsione di peggioramento. Sempre per dare un ordine di grandezza, 190 punti base equivalgono a circa 52 miliardi di interessi in più all’anno su un debito pubblico che nel 2022 ha toccato i 2.757 miliardi di euro (non tutti in una volta, ovviamente, poiché le emissioni di titoli di stato sono spalmate in vari anni).
Inoltre, le preoccupazioni sul passaggio di industrie strategiche in mani non desiderate oggi sono coperte dalla normativa “golden power” che conferisce al governo poteri fin eccessivi (allargando a dismisura l’ambito di ciò che è strategico e non limitandosi ad acquisti da parte di Paesi “non amichevoli”‘ di veto sulla vendita di imprese.
Né valgono le usuali scuse del “non è il momento”. Le quotazioni di Borsa stanno andando discretamente bene e le aziende pubbliche che zoppicano non verranno per miracolo risanate in modo da poterle vendere al meglio, a meno che lo Stato non le rimpinzi di soldi dei contribuenti (Alitalia Ita docet).
Gli studi empirici (Ocse 2018, Megginson 2017 e per l’Italia si possono vedere Barucci-Pierobon 2007. Corte dei Conti 2010) hanno costantemente evidenziato che se non si svende a oligarchi con pratiche corrotte e soprattutto se si liberalizzano i settori di operatività delle imprese pubbliche e si procede a una quotazione in Borsa, le privatizzazioni portano a guadagni di efficienza, sviluppano il mercato dei capitali, migliorano la governance, eliminano la concorrenza sleale tra chi è garantito dallo Stato e chi no.
In conclusione, la classe politica non riesce a fornire una giustificazione credibile delle sue scelte stataliste. Sono degli incompresi, appunto, anche se loro comprendono benissimo perché vogliono mantenere il potere.
Di Alessandro De Nicola