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PNRR o più incentivi a investimenti imprese, oppure meglio rinunciare a parte del debito

 

Sul PNRR, rischiamo di inverare di nuovo ciò che la polìtica italiana dovrebbe sapere da decenni. Il nostro Stato è un pasticcio che cumula i difetti del centralismo e del decentramento senza le virtù di nessuno dei due, la Pubblica Amministrazione non è in grado di spendere né bene né in fretta. Invece, il governo Conte bis si gloriò del fatto che avessimo ottenuto 195 miliardi dal Next Generation EU, cui avevamo diritto per i 9 punti di Pil persi in pandemia e non certo per la maestria di Conte, unico Paese Ue a sommare il massimo di trasferimenti e soprattutto prestiti, quando l’esperienza avrebbe dovuto indurci ad andarci molto più piano, soprattutto per la parte a debito. E in più Conte li disperse a pioggia tra tutte le migliaia di soggetti pubblici esistenti in Italia, invece di concentrarli – nel rispetto dei pesi preminenti che andavano rispettati per la transizione green e digitale – in un numero molto più limitato di interventi, a maggior impatto sul PIL e maggior partenariato pubblico-privato, per spostare il più possibile sul privato corresponsabilità su rapidità, trasparenza ed efficacia degli investimenti. Il risultato era scontato, come dissero allora in pochi, derisi. Ora sarebbe il caso di affrontare il problema con idee chiare. Al momento, non è così. Dopo 5 mesi, il governo non ha ancora una lista precisa di progetti da lasciar cadere, per chiedere a Bruxelles di rivolgerne altrove le somme imputate. Il DEF appena varato dal governo scrive più volte che le variazioni vanno chieste in Ue entro fine aprile cioè tra 10 giorni, come da impegni sottoscritti 2 anni fa. Ma il ministro Fitto mercoledì scorso in parlamento non ha dato date precise. Si alimenta l’idea che potremmo chiedere di spostare i progetti non attuabili al 2026 verso l’orizzonte più lungo del sessennio di fondi ordinari UE 2021-2027, utilizzabili entro il 2030. Ma le regole UE prevedono che i progetti si possono sì spostare, ma senza portarsi dietro le dotazioni finanziarie del Next Generation EU.

Perché era ovvio, che andasse così? La risposta sta in uno degli allegati al Def appena varato dal governo, quello relativo alle politiche di coesione. Dei fondi ordinari UE garantiti all’Italia dalla programmazione 2014-20, a fine 2022 le spese erogate per i fondi a impiego regionale erano pari solo al 54% del totale, tra risorse europee e cofinanziamento nazionale mancano ancora 29,9 miliardi di euro di utilizzo. E tutto ciò che non si spende entro fine 2023 si perde. Capita ogni sei anni, da decenni. È deluso, chi si aspettava risposte dai due allegati del DEF dedicati al PNRR. Il primo elenca 679 misure attuative del Piano tra implementate e adottate, ma tutte relative a interventi di semplificazione o abilitativi, non ai progetti. Il secondo fa una stima degli effetti attuativi del PNRR come programmato, col risultato che al 2026 il PIL dovrebbe essere superiore del 3,4% rispetto alla ipotesi di base su cui invece è scritto il DEF stesso, in cui prudentemente il MEF non ha incorporato affatto gli effetti del PNRR.

E’ verissimo, come dice Fitto, che la stessa UE chiede ai Paesi membri di considerare il successivo Repower Eu come una specie di capitolo aggiuntivo del PNRR, su cui eventualmente dirottare risorse. Ma le domande da farsi dovrebbero essere diverse: quali misure a pioggia cassare, su che cosa concentrarsi e perché. A maggior ragione visto il cronico sottoinvestimento italiano rispetto a Germania e Francia di cui ha scritto bene Federico Fubini, una via praticabile ci sarebbe: concentrare risorse non utilizzabili del PNRR in incentivi all’investimento delle imprese, magari nelle stesse regioni in cui insistevano i progetti da cassare. Mesi fa Confindustria illustrò riservatamente la proposta ai commissari UE, e per prima la Vestager non disse no ma aggiunse che il governo italiano non ne aveva mai fatto cenno. Né ne parla il governo ora, temendo la rivolta degli Enti Locali che si scatenerebbe. Ma se è così, allora acquista peso un’altra domanda. Che senso ha accrescere il debito, se è il DEF stesso a indicare una via strettissima per la sostenibilità della montagna debitoria pubblica? Come conciliarlo col fatto che il DEF si poggia sull’ipotesi che entro il 2026 dobbiamo prevedere quasi 3 punti di PlL tra minori spese e più entrate, per rialzare e tenere fisso per anni l’avanzo primario ad almeno il 2% del PIL, quando i partiti di governo per di più annunciano maxi tagli fiscali e prepensionamenti non si capisce come coperti? In assenza di una svolta realistica sui tempi per usare le risorse, sarebbe forse davvero meglio rinunciare a una parte del debito PNRR. Ovvio che per la politica sia molto complicato, esplicitare ciò che queste domande sottendono. Cioè che l’Italia da una parte ha pianto per anni contro l’Europa matrigna, ma alla prova dei fatti non sa e non può spendere bene le risorse che l’Europa le ha dato. Tuttavia, meglio un bagno di spietato realismo che di fallimentare demagogia. Da metà del Novecento si sono succeduti oltre trenta ministri o sottosegretari alla Presidenza del Consiglio con delega alla riforma amministrativa. Ma una riforma organica capace di rimettere in sesto tutto ciò che non funziona non è mai venuta, perché ogni governo ricomincia da capo. Era Francesco De Sanctis a dirlo: “le lotte politiche hanno tolto il tempo alle riforme amministrative”. Peccato fosse il 1865.   

 

 

Di Oscar Fulvio Giannino

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