Non è affatto vero che invecchiare sia un disastro. Per come la penso io, è cosa naturale.
La cosa più dura è invece invecchiare in un Paese che invecchia drammaticamente – in senso demografico – e che continua a far riferimento sempre a idee stravecchie – nel dibattito pubblico. Questo sì, abbatte animo e speranza.
Uno dei comparti della vita nazionale in cui il fenomeno manda più al manicomio è quello che riguarda il lavoro. Che insieme a demografia suicidaria e bassa produttività compone la triade dei più potenti freni alla crescita, e all’appianamento dei gap economici, sociali, territoriali e generazionali della nostra Italia. Politica e media continuano infatti – con poche eccezioni – indefettibilmente a parlare di lavoro ripetendo schemi frusti e vetusti. Dallo scambio orario-salario per misurarlo, figlio delle teorie del valore ricardiane e marxiane.
Alla “torta fissa”, per cui se prepensioniamo “liberiamo lavoro” per i giovani. Ai bonus contributivi a tempo per questa o quella coorte di lavoratori, pensando che le imprese così li assumeranno per un risparmio fiscale invece di assumere quelli di cui hanno bisogno. Al mito che il lavoro nasca per decreto, e che comunque lo Stato deve riservare l’accesso a incentivi agli investimenti delle imprese solo se esse assumono chi dice lo Stato. Al non capire che, con una produttività così bassa, è ovvio che le retribuzioni nei decenni siano restate in termini reali molto più basse di quelle tedesche e francesi. L’anomalia nell’anomalia è che tale regressione temporale accomuni in realtà senza troppe distinzioni sinistra e destra.
Entrambe convinte che se a lavorare in Italia siamo proporzionalmente tanti meno di tedeschi e nordeuropei, e con così meno donne e giovani occupati, la colpa sia di un’austerità e di un neoliberismo che invece Italia non ci sono mai stati. Per non parlare dell’assoluta unanimità della condanna di destra e sinistra contro il famigerato Jobs Act di Renzi….
Eppure, basta una conoscenza anche non troppo approfondita di come siano cambiate le imprese italiane nei decenni, basta aver letto almeno un po’ della sterminata letteratura sui cambiamenti epocali del lavoro nei Paesi avanzati nell’ultimo ventennio, per intuire che in Italia dovremmo proprio cambiarli, gli antichi occhiali con cui guardiamo al lavoro.
Io stesso ripeto da 10 anni che per innalzare drasticamente l’occupazione in Italia occorre una strategia pluriennale con strumenti plurimi convergenti: che metta insieme ai fini dell’occupabilità politiche fiscali e contributive, welfare pensato per giovani e donne, riforma dei profili offerti dalla scuola e dal sistema della formazione, politiche attive del lavoro con risorse attribuite agli attori del sistema che ottengano i migliori risultati di avvio e riavvio al lavoro, nonché drastico stop alle politiche di prepensionamento, scassa-conti e deruba-giovani.
Ma anche tutto ciò – che non entra nella testa né dell’attuale sinistra né dell’attuale destra – resterebbe in realtà un sia pur ambizioso esercizio che però utilizza in modo sinergico vecchi strumenti. Che non otterrebbero risultati di virtuosa discontinuità in pochi anni, se prima e insieme non cambiamo l’idea stessa di lavoro che vogliamo affermare ed estendere.
Siamo arrivati come Italia in ritardo rispetto a Industria 4.0, lacuna per fortuna colmata dalle misure varate dall’allora ministro Calenda, decisive per la ripresa pre Covid e poi scioccamente riviste al ribasso dai governi successivi, fino a esser ripresi in diversi aspetti del PNRR.
Ma mai la politica ha pensato di farle diventare strumenti ordinari e permanenti di crescita. Ora stentiamo ad avviarci sulla via di Industria 5.0, che aggiunge alla dimensione delle tecnologie abilitanti e di Internet delle cose di Industria 4.0, per migliorare le performance produttive e gestionali dell’impresa, la dimensione della sostenibilità complessiva di ogni processo d’impresa e nel suo rapporto con clienti e fornitori e ogni stakeholder territoriale.
Ma non abbiamo capito che Industria 4.0 e Industria 5.0 non sono solo rivoluzione tecnologiche e performative, comportavano e comportano anche l’adozione di una nuova nozione di frontiera del lavoro. Perché è il capitale umano dell’impresa l’asset chiave nella società della conoscenza. E perché vivere in una società in cui si parla di scarsità di lavoro per giovani e donne, e allo stesso tempo di enorme scarsità di personale rispetto ai profili che le imprese richiedono, obbliga a una ridefinizione e a una diversa conciliazione delle esigenze e aspettative sia delle imprese sia dei lavoratori, sia del decisore pubblico.
La dimensione Lavoro 4.0, rispetto alla scarsità dei profili necessari che scuola e sistema della formazione pubblica sono in grado di offrire, già da anni avrebbe dovuto indurre a una vera rivoluzione dal basso. Cioè da parte delle imprese, delle loro associazioni e sistemi territoriali di valore e fornitura, e dei sindacati.
Non ha molto senso aspettare anni e anni prima che, forse, il sistema di formazione pubblico si riorienti. Le imprese hanno tutta la convenienza ad accelerare il proprio ruolo propositivo e organizzativo. Facendo nascere proprie iniziative di tassonomia del capitale umano in grado di dar vita a un vero stato patrimoniale delle competenze, magari partendo dalle quotate e da estendere poi alle società di capitali e dalle Spa per poi arrivare nel tempo alle Srl.
Uno stato patrimoniale delle competenze d’impresa – condiviso per le piccole a livello di filiera – non sarebbe solo una metrica da offrire ai lavoratori nei contratti aziendali come traguardo da migliorare anno per anno con il reskilling, diventa anche un criterio aggiuntivo per l’accesso al capitale di rischio e di debito, un parametro di valutazione comparata tra imprese per il mercato, la tavola di riferimento per ogni lavoratore del suo diritto individuale alla formazione permanente, senza dover aspettare crisi aziendali per ricollocarsi. Cioè diventa un fattore essenziale per l’occupabilità permanente.
Un criterio essenziale per la valutazione del rischio d’impresa al variare esogeno di scenari di sensività, sempre più frequenti in questi ultimi anni. E piattaforma permanente di scambio per tutti gli attori abilitati alle politiche attive del lavoro.
Ma il passaggio a Industria 5.0 implica una rivoluzione ancor più radicale. Significa dover abbracciare caratteristiche rigenerative della trasformazione industriale, in termini ambientali e sociali, che a Industria 4.0 erano ancora o estranei o in nuce, mentre oggi diventano essenziali in ogni fase della produzione, gestione, organizzazione interna e rapporto con clienti, fornitori e territori. Non solo per salvaguardare l’ambiente, ma con altrettanta priorità volta al benessere sociale.
Visto che l’offerta attuale delle competenze specifiche offerte dal sistema formativo pubblico per Industria 5.0 è ancor più rarefatta di quelle relative a Industria 4.0, ciò dovrebbe aprire alla sperimentazione di vere e proprie piattaforme virtuali di lavoro condiviso, complementari al mercato del lavoro tradizionale, ma in modo da offrire la possibilità di figure professionali “a cavallo” tra più imprese con un unico contratto a tempo indeterminato: il che obbligherebbe a pensare anche a uno specifico regime giuslavoristico ed economico che certo non piacerebbe a quella parte del mondo sindacale ferma al contratto unico fordista, ma sarebbe molto opportuno anche perché offrirebbe un immediato accesso al proficuo ritorno in Italia di molti cervelli emigrati all’estero.
Altrettanto naturalmente, vista la piccola dimensione media dell’impresa italiana, bisognerebbe adattare le competenze e l’ottimizzazione di ogni processo necessario di Industria 5.0 a tale dimensione specifica italiana.
E ancora una volta non solo uno sforzo del legislatore, occorrerebbe fossero i sistemi territoriali e le associazioni territoriali d’impresa ad assumere il ruolo propulsore decisivo per avviare processi di questo tipo tra i loro associati. Con simili soluzioni innovative di interoperabilità tra sistemi di imprese come nuovi “standard”, la struttura industriale italiana di micro e piccole imprese potrebbe beneficiare anche di nuovi strumenti per creare network di imprese estesi anche al di fuori dei confini del Paese, oggi difficoltoso per chi ha ridotte dimensioni aziendali. Infine: ovviamente non è giusto credere che l’intero mercato del lavoro sia interessato da logiche innovative di questo tipo.
Resta fuori una componente non trascurabile di occupazione a bassa qualifica e purtroppo bassissima remunerazione, e spesso drammatiche violazioni di diritti fondamentali. E in questi settori la rivoluzione del lavoro 5.0 va accompagnata con misure che combattano i salari da fame attraverso l’adozione di una nuova norma che fissi i requisiti di rappresentanza per firmare contratti validi erga omnes, e contro le finte cooperative che abbassano i salari e non pagano i contributi: tutti fenomeni che sappiamo perfettamente dove si annidino, cioè in vasti settori del terziario come nei subappalti della logistica e dell’edilizia.
Ma, in generale, Lavoro 5.0 significa rottamare l’idea di contratti basati sullo scambio orario-salario per sostituirli con metriche di risultato; ridurre il perimetro dei contratti nazionali, che devono concentrarsi su tutela dei diritti dei lavoratori e sindacali e dei minimi salariali, per dare fortissimo incentivo invece ai contratti aziendali rompendo anche la resistenza delle piccole imprese che non li vogliono. Significa non confondere il lavoro agile con il lavoro in remoto, perché lo smart working è tutt’altra cosa da quello sperimentato in massa nella stagione del COVID. Adottare logiche di questo tipo è una rivoluzione per l’apparato pubblico e innanzitutto per l’impresa nonché per i lavoratori.
Ma il “bel lavoro” di cui ha parlato recentemente Alfonso Fuggetta nel suo ultimo libro, cioè un lavoro più inclusivo, più compartecipato in azienda, più ricco di formazione, più solido remunerativamente e come prospettiva di reimpiego, più attrattivo e più generativo socialmente, non si costituisce certo con vecchie idee dell’Ottocento e del Novecento. Anche nel lavoro, bisogna scatenare la Free Innovation di cui da anni scrive Eric von Hippel.
Questo è il mio personale augurio di buon primo maggio a tutti.
Di Oscar Fulvio Giannino