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Riformisti o riformatori?

Chiariamoci: non si tratta di nominalismo. A sfogliare le pagine dei giornali, per chi ancora pratica questa preghiera laica quotidiana, o ad ascoltare i vari politici passati in rassegna da agenzie o televisioni, pare che oramai tutti si prendano la briga di autodefinirsi riformisti.

Si dichiarano tali persino i conservatori, lo sono i socialisti, almeno quelli che non portano il cervello all’ammasso di qualche massimalismo a buon mercato. Pare che l’ultima moda – si fa per dire – sia quella che persino i liberali ogni tanto sbrodolino e si picchino ad invocare il proprio tasso di riformismo.

Riformismo è diventato sinonimo di chi vuol riformare gli ordinamenti, e persino la società, in cui opera. Pochi, pochissimi, si definiscono riformatori, come se definirsi tali fosse roba da nostalgici delle ghette e del redingote.

Ma siccome è vero che chi parla male pensa anche male, andrebbe usata maggior cura.

La politica, dopotutto e nonostante tutto, avrebbe uno stretto legame con la storia e con la storia delle idee. Tra gli strumenti di quest’ultima non può prescindersi da una qualche forma di epistemologia, intesa come generale teoria della conoscenza.

Ed allora sia consentito dire che mentre i liberali sono intimamente ignoranti, nel senso che sono consapevoli della pratica impossibilità di dominare tutti gli elementi che influiscono in una data società, i socialisti tendono ad esser maggiormente presuntuosi: confidano di poter dar forma alla società, modellarla, rivoltarla, emendarla dai propri errori per poter realizzare il socialismo, ovverosia l’ideale di un mondo giusto.

Si pensi a come i liberali ed i socialisti tendano ad approcciarsi ad una istituzione sociale come il mercato.

Mentre per il liberale il mercato è infatti l’unico strumento collettivo che è in grado di fornire una risposta, approssimativa fin che si vuole, all’ignoranza, ogni socialista, che lo riconosca o meno poco importa, deve postulare, per poter giustificare il proprio intervento di pretesa riforma, la perfetta conoscenza dei presupposti e delle conseguenze della propria azione.

Con questa abitudine fa il paio la pretesa di voler trovare una spiegazione per tutto, una legge unica di interpretazione della realtà, una chiave capace di aprire ogni porta dell’esistenza e dell’esperienza umana. E siccome le leggi del mercato non paiono soddisfacenti, si pensa di poterle facilmente modificare, alterare, correggere, convinti di poter indicare fini, scopi, mezzi ad una istituzione complessa.

Quella del socialista è la presunzione, per dirla con Einaudi, di essere il solo capace di rigenerare il mondo.

L’ignoranza del liberale, che esige quindi la libertà anche nella sfera economica, è figlia della convinzione, frutto dell’esperienza, che «l’unica, vera garanzia della verità è la possibilità della sua contraddizione, che la principale molla del progresso spirituale e materiale è la possibilità di cercare e di adottare nuove vie senza il consenso dei dottori dell’università di Salamanca, senza attendere le direttive delle “superiori autorità”» (La riforma sociale, sett-ott 1918, 453-455).

Ed è per questo che il riformismo non può che caratterizzare, nella migliore, ed anche nobile, delle prospettive, il socialismo.

Per i socialisti l’ideale da perseguire è una qualche forma di società socialista: da quella messianica ed illiberale che ha caratterizzato una buona parte del mondo del XX secolo, a quella umanitaria e maggiormente liberale auspicata dal socialismo democratico o, se si preferisce, da quella sua particolare specie che fu il Socialismo Liberale di Carlo Rosselli.

Ogni riforma è un passo graduale che tende verso quell’obiettivo. Il riformismo è intimamente finalista: persegue un risultato, che vuol raggiungere nel rispetto del conflittualismo e della democrazia: buona fortuna.

Essere riformatori, invece, è assai diverso. Non ci si prefigge un obiettivo determinato. Si è consapevoli che molti istituti di una data società meritino di esser rivisti, adeguati, cambiati, rifatti persino, da capo a fondo. Ma per il riformatore liberale non esiste un fine ultimo cui approssimarsi gradualmente: già sarebbe tanto trovar il modo di garantire a ciascun individuo la massima libertà possibile e compatibile con la pari libertà altrui o, come diceva Oliver Wendell Holmes “il mio diritto di agitare il pugno in aria finisce dove inizia il naso altrui”.

Ciascun individuo, poi, tenderà a perseguire il proprio obiettivo della vita.

Al fondo lo spirito riformatore ha trovato la sua più bella ed ispirante definizione nella dichiarazione di indipendenza americana, vergata da Thomas Jefferson, che volle riconoscere a ciascun cittadino il diritto alla ricerca della felicità. La ricerca, appunto, di qualcosa di personale, individuale. Per il riformista la misura della felicità è data per tutti.

Per il riformatore è un processo faticoso, senza garanzie, senza obiettivi prestabiliti, compresi gli errori che si compiono in questo lungo percorso. Per il liberale resta sempre vero che è comunque preferibile il male libero che il bene imposto. Il primo ha in se la propria potenziale cura, il secondo nega l’essenza stessa del vero bene.

 

 

 

 

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