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Un tetto ai canoni d’affitto o limiti per le case su Airbnb così si peggiora la crisi abitativa

Quando i prezzi sono regolamentati, i proprietari hanno meno incentivi a rinnovare le proprietà sfitte e immetterle sul mercato E gli imprenditori a costruirne di nuove, causando un danno all’economia. E c’è anche il rischio che le classi meno abbienti siano svantaggiate: il locatore privilegerà chi è in grado di dare garanzie.

Assar Lindbeck, economista svedese che per molti anni ha presieduto il comitato per l’assegnazione dei Nobel, dichiarò che il controllo sugli affitti è «il miglior modo per distruggere una città, eccetto i bombardamenti».

Evidentemente i benefici in termini di popolarità che derivano dal “fare qualcosa” per il mercato della casa, superano abbondantemente i rischi dell’eterogenesi dei fini che provvedimenti di controllo dei prezzi hanno sui cittadini e l’economia.

Qualche giorno fa l’assessore alla Casa del Comune di Milano, Pierfrancesco Maran, ha avanzato alcune proposte. La prima riguarda gli affitti a breve termine organizzati da piattaforme come Airbnb, ma non solo.

Poiché ci sono circa 15 mila case che vengono utilizzate a tale scopo e «perituristi sono un po’ troppe» (a giudizio di Maran, ovviamente) «se una parte di queste tornasse a studenti e lavoratori i prezzi un po’ scenderebbero». La soluzione potrebbe essere quella di limitare il numero di giorni in cui la casa è affittabile, ad esempio 120 o 180, escludendo però dalla misura i piccoli proprietari (di una, due o tre case? E un lussuoso appartamento di 300 metri quadrati in centro vale come due piccole mansarde oltre la seconda cerchia dei Navigli? Dettagli, ci penserà il Regolatore).

Oppure, sempre secondo l’assessore, si potrebbe vagliare la possibilità di mettere un tetto agli affitti.

Partiamo da questa idea, che in Italia abbiamo sperimentato con la gloriosa legge dell’equo canone del 1978. Cosa potrebbe andare storto? Basterebbe chiederlo all’imperatore Diocleziano e al suo Edictum de pretiis rerum venalium emesso nel 301 d.C. con lo scopo di calmierare l’inflazione nell’Impero e attuato anche con la pena capitale. Un fallimento totale che rovinò l’economia romana e che a partire dal 305 d.c fu completamente ignorato. Il tetto ai canoni va infatti contro la più elementare delle leggi economiche, quella della domanda e dell’offerta, in quanto con un limite artificialmente basso si riduce l’offerta dei beni perché non c’è più convenienza a vendere, Ciò accade anche nel mercato immobiliare come ormai vagonate di studi dimostrano. Infatti, quando i prezzi sono regolamentati, i proprietari hanno meno incentivi a rinnovare le proprietà sfitte e immetterle sul mercato o gli imprenditori a costruirne di nuove, causando un abbassamento della domanda nel settore delle costruzioni e perciò un danno economico generale. Le ricerche empiriche hanno anche dimostrato che i locatori sono completamente disincentivati a intraprendere lavori di manutenzione dei loro immobili, visto il reddito troppo basso che ne ricavano, e tendono a farli usurare fino a che il loro valore si deprezzi in modo tale da giustificare l’affitto insoddisfacente. Inutile dire che il tutto va a scapito dell’arredo urbano e, ancora una volta, del settore edile.

L’equo canone significa anche minore mobilità, perché i conduttori, per non perdere il privilegio del prezzo calmierato, rimangono nella stessa casa anche quando avrebbe meno senso (ad esempio, appartamento di ragguardevoli dimensioni occupato da una famiglia che nel frattempo ha ridotto i suoi componenti), deprimendo e distorcendo l’offerta. Offerta che viene ulteriormente ridotta dal fatto che i proprietari preferiscono o vendere l’immobile o trasformarne la destinazione d’uso in uffici o residence.

Inoltre, c’è il rischio, reso evidente dai dati di New York, che le classi meno abbienti siano svantaggiate perché il locatore, visto che prende poco, sceglierà accuratamente gli inquilini, privilegiando i redditi fissi o chi è in grado di dare garanzie. Immigrati o giovani conduttori ritenuti “scomodi” – ne saranno svantaggiati. Come se la penuria di immobili disponibili non bastasse, nel mercato non regolamentato i prezzi schizzeranno all’insù. Infine, meno affitti e di minor valore, uguale meno entrate fiscali e più nero e spese per la burocrazia che controlla l’attuazione delle norme. E cosa ci si aspetta dalla regolamentazione degli affitti brevi? Mettere un cap ai giorni equivale a un tetto ai prezzi. Le case disponibili vedranno aumentare i loro canoni (ci sono meno giorni liberi e quindi per la simpatica legge della domanda e dell’offerta…), ci sarà un trasferimento di ricchezza a favore degli alberghi (determinato da non si sa quale scelta di politica economica), meno investimenti immobiliari e tutti gli altri inconvenienti elencati sopra. Gli studi sugli effetti delle restrizioni confermano quello che ci si può aspettare a rigor di logica.

La nostra Costituzione afferma che la proprietà privata è garantita dalla legge che ne assicura la “funzione sociale”. Quale sia la funzione sociale di danneggiare l’economia, favorire un settore economico a scapito di un altro, deprimere l’offerta e l’erario pubblico, francamente sfugge ai più.

Di Alessandro De Nicola

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