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Costi più alti e addio trasparenza il prezzo della difesa dell’esistente

In Italia non c’è gara tra chi vorrebbe più competizione in nome di migliori servizi per un minor prezzo e chi la competizione la respinge La politica si è abituata a considerare normale la produttività stagnante

C’è chi lo descrive come un ritorno imperioso della politica al suo dominio. Chi lo inquadra in una prepotente rinascita del sovranismo. Chi lo attribuisce a ignoranza dei ceti politici. E chi è sempre stato e resterà fieramente avverso alla parola stessa “mercato”. Sta di fatto che in Italia nessuno o quasi più crede al valore della concorrenza.

La politica negli ultimi mesi è puntualmente tornata alla tutela dei tassi-sti, dei balneari, degli ambulanti. E in questi casi è la riproposizione della lotta acerrima condotta – a essere onesti, non solo in Italia ma anche in altri grandi paesi Ue a cominciare dalla Francia – contro la direttiva Bolkenstein sulla liberalizzazione dei servizi, che subì quattro anni di calvario nella gestazione più volte interrotta tra le proposte della Commissione del 2002 e la sua adozione nel 2006, che l’Italia non recepì fino al 2010, e che da allora è la bestia nera dei legislatori nazionali.

L’avversione si manifestò sin dagli inizi, ma allora era la sinistra a temere che il principio del Paese d’origine per il prestatore di servizi – introdotto come passo verso il mercato unico, non costringendo più gli operatori transfrontalieri a piegarsi a 27 normative nazionali – fosse la resa al dumping sociale. Nel tempo, l’avversione è diventata generale. La destra, non più libera-le, si è allineata. Non c’è gara tra chi vuole più concorrenza in nome di migliori servizi per un minor prezzo grazie a investimenti ed efficienza, e chi la respinge, persuaso che sia puro darwinismo sociale. È rimasta solo un’asta al rialzo di più deroghe alla concorrenza, offerte nel mercato elettorale alle diverse constituencies che prosperano al riparo di licenze, concessioni, prezzi amministrati e tariffe regolate.

Sin qui, è difesa dell’esistente. Parossistica in Italia, perché la politica si è abituata a considerare assolutamente normale vivere in un sistema a produttività stagnante, in cui la produttività più elevata dovuta ai morsi della concorrenza di chi esporta sui mercati esteri è più che compensata dalla produttività negativa dei servizi non di mercato – quelli della pubblica amministrazione – e dalla comunque scarsa produttività anche di vasti settori dei servizi di mercato (con l’eccezione dell’intermediazione finanziaria, di settori come la grande distribuzione e anche dei servizi all’impresa).

Ma ormai si aggiungono vigorose accelerate anche per tornare indietro. I decreti attuativi per il trasporto pubblico locale hanno di fatto confermato che gli enti locali potranno continuare nella prassi della non messa a gara, basterà come al solito dare una giustificazione formalmente “rafforzata” della scelta di gestirli in house. Nessuna area metropolitana italiana ha mai davvero guardato i dati del Regno Unito sugli effetti per la mano pubblica di aver messo a gara i trasporti pubblici: più che dimezzando l’onere di contribuito a carico dell’amministrazione pubblica (cioè del contribuente) in cambio di servizi più efficienti.

Mettere a gara il trasporto locale in una metropoli significa non fare una gara unica, nessuno si presenterà contro il monopolista pubblico. Significa spezzare la gara per tratte e lotti. Anni fa un assessore alla mobilità di Milano provò a proporlo. Non ebbe ascolto. E date un occhio alle mirabilie di Salvini, che appena divenuto ministro alle Infrastrutture ha ordinato che voleva in tempi rapidissimi e sforbiciato il nuovo Codice degli appalti, dopo anni di gestazione travagliata e 28 modifiche in dieci anni. L’obiettivo prioritario era affrettare cantieri e opere. Nobile intento, nell’Italia che non ce la fa a spendere le risorse del Pnrr. Peccato che si raggiunga lasciando semplicemente più mano libera alle amministrazioni pubbliche. E così si porta a 500 mila euro la cifra per la quale è possibile affidare direttamente i lavori senza qualifica di stazione appaltante, mentre prima la soglia era 150mila, si innalza di 100 mila euro a 140 mila la possibilità di affidamenti diretti per l’acquisto di forniture e servizi. Così però «il 90% degli affidamenti fuoriesce dalla regola della qualificazione e il 60% delle gare è svolto da chi non sa farle», ha osservato il presidente dell’Anac Giuseppe Busia. E poiché è abolito il registro degli affidamenti in house, la fretta significa solo meno gare con procedure pubbliche di costi ed efficienza comparati, più mani libere alle imprese amiche dell’amministrazione, meno trasparenza e più costi grazie al venir meno del conflitto d’interessi che da trasparente torna opaco.

Negli anni alla guida dell’Antitrust Giuliano Amato diceva spesso che l’avversione alla concorrenza non viene da politici che non hanno letto Hayek e Buchanan, perché il senatore John Sherman – che redasse nel 1890 la prima legge antitrust – di economia era del tutto ignorante. Ma aveva chiaro quali fossero i danni che i monopolisti infliggevano a chi aveva meno reddito.

Il punto è un altro. Dopo decenni dacché abbiamo scelto l’Europa, la politica ancora non si rende conto che è finita la vecchia divisione tra sovranità nazionale economica rispetto a subordinazione a sovranità estere, ci sono semplicemente fasci di interessi che trovano miglior regolazione su un mercato europeo rispetto a quello nazionale. E anche la classica tripartizione dei poteri alla Montesquieu è tramontata, perché oltre a legislativo, amministrativo e giudiziario cari ai sovranisti esiste una funzione pubblica di controllo e una proattiva di tutela di interessi costituzionali come la concorrenza affidate entrambe ad Autorità indipendenti. E questa la ragione profonda della difesa delle corporazioni e del ritorno all’opacità anticoncorrenza: l’incomprensione che da decenni tutto è cambiato e niente resta come prima.

Oscar Giannino

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