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Glossario politico: democrazia liberale

Quante volte si legge, o si sente affermare, da questo o quel politico – di norma un politico della maggioranza in quel momento al potere – “dobbiamo farlo, perché ce lo chiedono gli elettori”. 

Una tale affermazione viene forse ignorata nella sua portata perché la si ritiene ovvia, scontata, coerente col significato letterale del termine “democrazia”, appunto: il governo del popolo.

In realtà, da una prospettiva coerentemente liberale, quella invocazione è falsa. 

La democrazia, sotto questo aspetto, è controintuitiva. 

In un lontano saggio del 1958 (Miti e realtà della democrazia), Maranini notava come le “grandi democrazie storiche sono in verità (…) complicati e validi sistemi di difesa contro la maggioranza, contro gli stessi organi dello Stato, contro il potere politico a favore degli individui delle minoranze”.

Quella che viene descritta, infatti, è l’essenza stessa della democrazia liberale, ove l’aggettivo liberale è più qualificante del sostantivo democrazia.

La democrazia, intesa come accesso di un numero crescente di popolazione alla partecipazione politica, è una vicenda in realtà relativamente recente.

Alle origini, quelle stesse esigenze di difesa degli individui e delle minoranze avevano come principale avversario il potere assoluto dello Stato. 

A cavallo tra il sedicesimo ed il diciassettesimo secolo Edward Coke, un giurista inglese, guidò la lotta contro l’assolutismo che i sovrani Stuart volevano imporre in Inghilterra, come già stava avvenendo nell’Europa continentale. 

Coke aveva come suoi alleati i dissidenti religiosi ed il prestigio che la common law si era già guadagnato. 

A Coke si deve anche la cura dei Reports, che raccoglievano i principi fondanti di quella speciale epifania del diritto, i semi di quella difesa ante litteram liberale dei diritti degli individui contro il potere dello Stato. 

I Reports viaggiarono nelle valigie dei Padri Pellegrini che andarono a colonizzare il Nuovo Mondo: quei semi, ben piantati e ottimamente coltivati, frutteranno a fine 1700 i principi ispiratori della Costituzione americana.

Ed è proprio la riflessione americana che chiarisce il significato che oggi noi attribuiamo alla democrazia, intesa come democrazia liberale. 

Tutta intera l’esperienza costituzionale americana è tessuta nell’intimo conflitto che esiste tra il momento della libertà (o dell’individuo) e della democrazia (o del collettivo): dal Bill of Rights che coi suoi emendamenti stabilisce un argine a qualsiasi maggioranza parlamentare (e ad ogni altro potere), alla struttura federale della Repubblica (tanto che con il Connecticut compromise si stabilì che ciascuno stato avrebbe avuto un numero uguale di senatori, proprio per temperare il principio democratico). 

E che questa dialettica sia ineliminabile nella moderna democrazia venne chiarito in modo adamantino da Tocqueville, per il quale il conflitto del mondo moderno si risolve nella alternativa fra democrazia liberale e democrazia dispotica, ovvero fra “libertà democratica o Cesarismo” (nella Democrazia in America, vol. II, cap. IX, in fine).

Quale è, dunque il tratto caratteristico della democrazia liberale? 

Forse la miglior risposta la troviamo nella famosa orazione funebre di Pericle: “benché soltanto pochi siano in grado di dar vita ad una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla”.

La riflessione di Pericle non è casuale. Ad essa si rifece Karl Popper nel tentativo di fornire una definizione della democrazia che sia coerente coi presupposti di una società aperta, come tale tollerante e liberale. 

Così giungendo alla conclusione che sia irrazionale e sbagliato (per non dire pericoloso) ritenere che la democrazia debba fornire risposta alla domanda “Chi deve comandare/governare”.

La domanda razionale, secondo i principi liberali, non può che essere, quindi, “Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. 

Non, quindi, chi debba governare, ma come controllare chi comanda, fino al punto di rimuoverli dal potere. Questo vogliono sapere uomini fallibili e non dispensatori di verità, che ambiscano a costruire, perfezionare e difendere le istituzioni democratiche, al cui interno possano convivere, liberamente, i portatori di idee ed ideali tra essi diversi e magari persino contrastanti.

Se abbandoniamo, quindi, l’idea di democrazia come governo del popolo (coi suoi tristi corollari potenzialmente illiberali e totalitari), molto più utile è definire la democrazia come il modello di organizzazione sociale incentrato sul giudizio del popolo.

Se la democrazia è quindi giudizio del popolo – e non governo del popolo – si giunge ad una ulteriore conseguenza controintuitiva: lo Stato democratico liberale porta con sé una incompatibilità tra il parlamento e la sovranità popolare, intesa appunto come governo popolare (così Colletti, Lezioni di filosofia politica). 

Si dirà, come possono esser incompatibili il parlamento e la sovranità popolare? 

Lo sono se, come visto in apertura, i rappresentanti politici invocano le domande degli elettori o ancor peggio l’incarico ricevuto dagli elettori. 

Perché così facendo quei (cattivi) politici erodono la portata del principio cardine del parlamentarismo, ovvero il divieto di mandato imperativo, come venne definitivamente descritto nel celebre discorso agli elettori di Bristol tenuto da Edmund Burke nel 1774.

L’eletto, infatti, deve decidere in piena autonomia e secondo la massima libertà cosa sia giusto proporre, votare. Questo è il senso ed il ruolo del parlamento. Alla scadenza del suo mandato gli elettori lo potranno confermare o meno: al fondo la democrazia si fonda sulla possibilità di cambiare i governanti e i rappresentanti senza alcun spargimento di sangue: le teste si contano, non si rompono, in democrazia.

Il mito di una generale democrazia diretta, oggi apparentemente resa più facile dalle nuove tecnologie, è un falso mito. Il mondo è sempre più complesso, le scelte che devono esser compiute richiederebbero una preparazione ed un approfondimento che nessuno di noi elettori può realmente compiere mentre è impegnato nelle faccende quotidiane. 

La necessità di una rappresentanza politica riposa proprio in questo: la pluralità delle opinioni in parlamento è una ricchezza, ed il confronto che nasce nella discussione è l’occasione per affinare le proprie opinioni e magari per superarle in favore di altre opinioni preferibili. 

Di qui la sciagura, ed il profondo senso antidemocratico, della riduzione del numero dei parlamentari, fatto poi per il peggiore dei motivi: la riduzione dei costi (tra l’altro: che non sono nemmeno ridotti), come se la democrazia fosse, appunto, un mero costo.

L’esatto contrario: la democrazia liberale è una ricchezza, per tutti.

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