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Glossario politico: libertà di espressione

Di pari passo con lo sviluppo dei social media emerge la richiesta di un filtro, di un controllo, di un freno capace di ridurre il rischio di comportamenti offensivi, denigratori.

Celeberrimo l’ammonimento di Umberto Eco contro l’“invasione degli imbecilli”: <<i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli>>.

Quelle enormi piazze virtuali che sono diventati i social media diventano un autentico mercato all’ingrosso di notizie inaccurate, imprecise, delle volte puramente e semplicemente false.

E non solo sono uno spaccio di credenze le più varie e zodiacali, ma dispensano una specie di succedaneo di giustizia: un sistema giudiziario con regole proprie, dove abbondano gli accusatori a scapito dei difensori, dove al giudice di preferisce il boia o, nelle versioni più moderate, il carceriere.

A condizione che dimentichi le chiavi.

Il classico market for lemons di cui parlava Akerlof cinquant’anni fa con rifermento alla qualità delle informazioni disponibili sul mercato: la moneta cattiva scaccia quella buona.

Si comprende, quindi, come sempre più spesso emergano più o meno motivate preoccupazioni, tanto da sollecitare una qualche forma di intervento.

Corollari di queste sollecitazioni sono, in ordine puramente causale, le richieste di intervento per limitare il ricorso all’hate speech – il discorso d’odio -, l’invito ad osservare i sacramenti del politicamente corretto e via discorrendo.

Dopo centottant’anni non si sa quanti condividerebbero l’orgoglioso incipit di David Hume nel suo saggio “Della Libertà di stampa”: “non c’è nulla di più sorprendente per uno straniero dell’estrema libertà di cui godiamo in questo Paese di comunicare al pubblico tutto ciò che ci pare e di censurare apertamente ogni misura adottata dal re o dai suoi ministri.

Se l’amministrazione decide di fare la guerra, si afferma che, volontariamente o per ignoranza, sbaglia gli interessi della nazione e che la pace, nella situazione attuale, è infinitamente preferibile. Se la passione dei ministri è per la pace, i nostri scrittori politici non respirano altro che guerra e devastazione, e rappresentano la specifica condotta del governo come meschina e pusillanime”.

Ma sarebbe accettabile, da una prospettiva liberale, una qualche forma di intervento?

Intervenire vorrebbe dire in qualche modo metter mano alla libertà di espressione. In saggio pubblicato un paio di lustri fa da Kenneth Minogue (“The Servile Mind – How democracy erodes moral life”) veniva opportunamente evidenziato come la civiltà occidentale si sia evoluta attorno ad un principio fondante: l’autonomia del giudizio morale rispetto a quello politico.

Tale processo è tutt’uno con la secolarizzazione della società rispetto le credenze religiose, le quali non svaniscono ma assumono prevalentemente un ruolo personale, individuale e, nelle migliori esperienze, tendono a non debordare nella sfera politica.

Ed è tutt’uno con lo sviluppo anche del diritto penale, che vi via si è autonomizzato abbandonando l’identità tra peccato e reato. Che poi ci siano, accidentalmente, tendenze contrarie anche nel mondo occidentale non smentisce questa tendenza di lungo periodo.

Ed ancora, fino a poco tempo fa nessuno si sarebbe permesso di criticare Pablo Picasso come pittore solo perché nella sua vita privata era misogino, aggressivo, persino violento (nel quadro “la donna con la collana gialla” viene ritratta Françoise Gilot, la sua compagna al tempo: sul viso non ha un neo di bellezza, ma la cicatrice di una sigaretta spentale sul volto dall’artista).

Ed ha senz’altro ragione Claire Dederer (Monsters – A Fan’s Dilemma, 2023) che tenta di mantenere separato il giudizio sull’artista e quello sull’individuo e i suoi demoni: “Che differenza fa” – scrive “se si priva un genio malvagio dei propri soldi o della propria attenzione?”.

Dederer parte da posizioni sostanzialmente anticapitaliste, perché resta convinta che la celebrità sia generata e monetizzata dal sistema, che, come il banco in un casinò, vince qualsiasi cosa si scelga di consumare.

Si può dubitare di questo ragionamento, ma si può accettare la sua conclusione: che rinunciare a Picasso, per esempio, “è essenzialmente privo di significato come gesto etico”.

A quella autonomia del giudizio morale da quello politico, che ha come sua forza costitutiva la soggezione di ciascuno di noi al giudizio morale altrui, che però resta privo di conseguenze giuridiche, si tende sempre più a voler sovrapporre, ed anzi far privilegiare, quello che Minogue chiama il mondo politico-morale.

Prima, nel mondo occidentale geloso della separazione tra morale e politica, la vita morale del singolo era oggetto una scelta e di un impegno scelti individualmente, come dovrebbe esser tipico di una qualsiasi società aperta, il mondo politeista di cui parlava Karl Popper ove l’etica non è scienza e i valori ultimi non sono “teoremi” quanto piuttosto proposte di vita, oggetti delle nostre scelte di coscienza.

Ora si vorrebbe sostituire a quella una visione pedagogica, in cui quelle che prima erano scelte morali individuali – giuste o sbagliate, buone o cattive – divengono atteggiamenti standard in supporto a cause politico-morali condivise.

O meglio: che devono esser condivise. Ma attenzione, quegli atteggiamenti standard diventano obbligatori, perché ritenuti esser componente necessaria di un atteggiamento moralmente (e politicamente) decente. Alla scelta deliberativa tipica del tradizionale sistema occidentale, si sostituisce l’imitazione, indotta ed alla fine obbligata, di un atteggiamento virtuoso, con conseguente illegittimità, in senso molto ampio, di ogni posizione diversa, o semplicemente critica.

Nel riflettere su queste tendenze, non farebbe male ricordare l’insegnamento di Tocqueville, per il quale “la gente pensa di aver fatto abbastanza per la protezione della libertà individuale quando l’ha consegnata al potere della nazione in generale.

Questo non mi soddisfa: la natura di colui al quale devo obbedire ha per me meno importanza del fatto che l’obbedienza mi venga estorta”.

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