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Il mercato e i suoi nemici

Glossario politico: il mercato e i suoi nemici

Nel dibattito sulle idee, e quindi anche in politica, gli avversari amano costruire a bella posta dei fantocci, cui attribuiscono tutti i difetti possibili. Il mercato, in sé, non sarebbe nemmeno un’idea, ed ancora meno dovrebbe esser bandiera sotto la quale si arruolano le schiere di una sola parte.

Ma tant’è.

Prevale in Italia, e non da oggi, una istintiva diffidenza nei confronti del mercato. Tale diffidenza ha plurime cause, e si manifesta sotto le più svariate forme. La destra italica, nel suo revanscismo culturale, pare troppo spesso rivitalizzare le peggior forme del corporativismo, basti pensare alla grottesca condiscendenza con cui avalla le più varie amenità di qualche gruppo di pressione, siano essi agricoltori, tassisti, balneari e via discorrendo.

La sinistra, soprattutto quella più nostalgica che revanscista, nutre da sempre una propria diffidenza nei confronti del mercato, cui oppone una propria versione corporativa, che cambia, rispetto a quella destrorsa, solo per gli interlocutori.

Come si conviene, i nemici marciano separati per colpire uniti.

Così tocca prendersi la briga di difender d’ufficio il mercato. La prima accusa che gli si rivolge contro è quella relativa alla sua pretesa perfezione. Breve: i risultati di mercato sarebbero tutto tranne che perfetti.

Ma è un’accusa mal rivolta, che forse potrebbe valere contro i neofiti del mercato, di recentissima conversione che, come tutti i neofiti, peccano di eccesso di zelo.

Nessun sostenitore delle ragioni del mercato ha mai avuto la pretesa di attribuire a questa istituzione la capacità di produrre risultati perfetti. Nessuno di essi ritiene che prendendo a calci una scacchiera questa ricada a terra con tutti i suoi pezzi perfettamente in ordine, perché esisterebbe una qualche mano invisibile che vi provvederebbe, tanto per far ricorso a metafore di chi come Smith è il fondatore non del mercato ma della riflessione economica sul mercato.

E’ vero l’opposto: sono gli avversari del mercato che peccano di quella presunzione fatale che ritiene che si possa ordinare tutto ad un qualche livello centrale: dai prezzi, che sol per questo smetterebbero di esser prezzi, al numero di licenze per questo o quel servizio, fino ad arrivare a determinare il valore del lavoro, che poi sarebbe il prezzo che si riconosce a qualsiasi prestazione.

Adam Smith, che come tutti i grandi economisti prima di esser un economista era un filosofo della morale, scrisse nella sua Teoria dei Sentimenti Morali (1759) che «l’uomo di sistema… sembra immaginare di poter disporre i diversi membri di una grande società con la stessa facilità con cui una mano dispone i diversi pezzi sopra una scacchiera. Egli non considera che i pezzi sopra una scacchiera non posseggono altro principio di movimento oltre a quello che la mano imprime loro; ma che, nella grande scacchiera della umana società, ogni singolo pezzo ha un proprio principio di movimento, completamente diverso da quello che un legislatore possa scegliere di imprimere su di esso» (Theory of Moral Sentiments, 1759, parte VI, sezione ii, capitolo 2).

Il favore per il mercato ha tutt’altra ragione, ed ha a che vedere con l’ignoranza umana.

Il mercato è infatti l’unico strumento collettivo che è in grado di fornire una risposta, approssimativa fin che si vuole, all’ignoranza. Ogni suo avversario che sia un corporativista di destra o di sinistra, e che lo riconosca o meno, deve postulare, per poter giustificare il proprio intervento di pretesa riforma, la perfetta conoscenza dei presupposti e delle conseguenze della propria azione. Ben presto a questa presunzione si assocerà quella di voler raggiungere i medesimi fini grazie alle magnifiche sorti e progressive dell’Intelligenza Artificiale, ma anche questa sarà speranza vana perché incapace di prender in considerazione l’imprevedibile.

Con questa abitudine fa il paio la pretesa di voler trovare una spiegazione per tutto, una legge unica di interpretazione della realtà, una chiave capace di aprire ogni porta dell’esistenza e dell’esperienza umana. E siccome le leggi del mercato non paiono soddisfacenti, si pensa di poterle facilmente modificare, alterare, correggere, convinti di poter indicare fini, scopi, mezzi ad una istituzione complessa.

Quella degli avversari del mercato è la presunzione, per dirla con Einaudi, di essere i soli capaci di rigenerare il mondo. L’ignoranza del liberale, che esige quindi la libertà anche nella sfera economica, è figlia della convinzione, frutto dell’esperienza, che «l’unica, vera garanzia della verità è la possibilità della sua contraddizione, che la principale molla del progresso spirituale e materiale è la possibilità di cercare e di adottare nuove vie senza il consenso dei dottori dell’università di Salamanca, senza attendere le direttive delle “superiori autorità”» (La riforma sociale, sett-ott 1918, 453-455).

Si contesterà che questa è presa di posizione ideologica, dando così prova però di non voler capire. Basterebbe andare a rileggersi quelle meravigliose pagine di Smith in cui cercava di elencare le persone necessarie per la produzione di abito di lana: e vi si legge dell’intervento del sarto, del pastore, il selezionatore di lana, il cardatore, il tintore, il produttore di tinture, il filatore, il tessitore, il follatore, il mercante, il vettore per i trasporti, il costruttore di mezzi di trasporti, etc.

E questo processo vale per ogni bene di consumo, per ogni servizio di cui abbiamo quotidianamente bisogno. Ecco, forse su questo punto si può accettare una correzione: più che bisogni domande, perché il mercato soddisfa domande e non bisogni o desideri.

Si dirà: il mercato è imperfetto. Certo, come ogni opera o istituzione cui l’uomo abbia contribuito alla sua creazione o evoluzione.

Si possono correggere i risultati che si ritengono iniqui, certo.

Ma non si può pensare di manometterne il meccanismo.

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