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La colpevolizzazione del mercato: oggi le banche, domani chissà

Questa idea che le banche siano rimaste “sorde” rispetto alle difficoltà a cui si è trovato di fronte chi ha visto crescere il saggio di interesse avendo stipulato anni fa un mutuo a tasso variabile è davvero assurda e meschina.

Così come assurdo e meschino è attribuire alla BCE fantomatiche colpe: “La Bce ha sbagliato – ha detto Antonio Tajani intervistato da Il Giornale – lo diciamo da mesi e questa è l’inevitabile conseguenza”.

Anzitutto, va detto che chi si trova oggi in difficoltà può pur sempre ricorrere ad alcuni rimedi già previsti dalla legge, come ricordato nel mese di luglio dall’ABI.

Molte banche, del resto, per evitare di far entrare in default il rapporto di credito, si erano già organizzate per allungare o sospendere l’ammortamento, riducendo il costo della rata.

Ma il punto è un altro: cosa dovremmo dire a chi anni fa, con i tassi di riferimento molto bassi, si indebitò a tasso fisso, scontando per definizione un saggio di interesse più alto (perché, come abbiamo già avuto occasione di dire, la stabilità costa)? Dovremmo dirgli: hai fatto male, perché se te ne stavi a tasso variabile risparmiavi e in caso di rialzo ci avrebbe pensato lo Stato.

La fine del mercato.

Non stupisce, quindi, la tassazione sugli “extraprofitti” delle banche decisa dal Governo Meloni.

Una locuzione – “extraprofitti” – pericolosissima, perché “extra” sottende un chiaro giudizio morale: è extra ciò che è eccessivo, ingiusto, non meritato.

E chi lo decide cosa è “extra”?

L’esecutivo, con decretazione d’urgenza. Il Parlamento interverrà dopo, magari con voto di fiducia. E siccome il decreto legge non è una proposta di legge, ma già un atto avente forza di legge, che sia l’esecutivo a stabilire cosa è “extra” e cosa no, ci fa sinceramente preoccupare per il futuro.

No taxation without representation. Non scordarselo mai.

Non a caso Giorgia Meloni ha definito questi profitti (senza nemmeno sapere di quanto si trattasse esattamente) proprio “ingiusti”: troppi soldi, troppo mercato, troppa libertà.

Orbene, che cosa intende, tecnicamente, il Governo per “extraprofitti”?

Si tratta della differenza tra i ricavi della banca per gli interessi passivi applicati ai clienti che hanno contratto dei finanziamenti e i costi sostenuti per gli interessi attivi riconosciuti a clienti e finanziatori per la raccolta di liquidità.

Una forchetta che in questi mesi si è allargata perché i tassi di riferimento sono cresciuti, alimentando previsioni di ricavi da record per tutte le banche (gli interessi passivi sui rapporti di credito vengono adeguati in tempo praticamente reale alle scelte di politica monetaria della BCE, poiché le banche pagano di più il denaro da prestare), mentre gli interessi che le banche riconoscono ai clienti sulle giacenze di conto corrente e sulle altre forme di raccolta di liquidità hanno tempi di adeguamento molto più lenti (almeno sui rapporti ordinari).

Ma dove sta scritto che sui semplici depositi le banche, oggi, nel 2023, non negli anni ’80, debbano riconoscere tassi di interesse equivalenti a quelli scontati dai clienti sui soldi presi a prestito? Gli interessi attivi da rendita di deposito non sono più applicati in misura significativa da tempo.

Per ottenere una remunerazione il correntista deve investire e assumersi un rischio. Può farlo con prodotti molto semplici come i c.d. pronti contro termine.

Perché la banca dovrebbe assumersi il rischio di insolvenza del cliente a tasso basso, mentre il cliente dovrebbe ricevere una remunerazione equivalente a rischio pressoché inesistente (cioè il rischio che la banca fallisca e che i meccanismi di risoluzione e di tutela dei depositi non coprano la perdita) sul semplice deposito di somme?

Pretendere che sui semplici depositi maturino cospicui interessi attivi equivale a pretendere rendite di posizione: una cosa molto italiana.

E poi, nessuno che consideri che per la banca acquistare denaro da dare in prestito ha un costo oggi più alto? E che lo spread che la banca applica riflette un maggior rischio di controparte (cioè di insolvenza del cliente), dipendente anche, purtroppo, proprio dall’aumento del costo del denaro?

Il 25 giugno 2020 l’OCSE ha presentato i dati aggiornati dell’analisi che periodicamente produce sull’educazione finanziaria nel mondo. L’Italia, si collocava ancora sotto la media, con un punteggio di 11,1.

Emerge in tutta la sua drammatica evidenza la scarsa competenza finanziaria degli italiani.

E del loro Governo.

In settimana il Wall Street Journal ha titolato che la tassa italiana dimostra la volontà di trattare le banche come delle utilities.

Sul Financial Times la tassa sulle banche è stata definita “il più grande errore del governo del primo ministro Giorgia Meloni da quando la sua coalizione di destra ha vinto le elezioni parlamentari dello scorso settembre”.

Secondo Oliver Collin di Invesco, azionista di UniCredit, la tassa riflette “una combinazione di mancanza di chiarezza e un completo voltafaccia in termini di politica”.

Ci fermiamo qua.

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