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Newsletter Libdem n. 16 – 1/7/2023

La partita d’autunno del Governo

In settimana Giorgia Meloni ha lanciato un guanto di sfida all’Europa nel suo intervento al Parlamento, sia sulla ratifica del Mes che sulla Bce.

Si tratta di una sfida che però presuppone obiettivi e risultati consistenti. Se, cioè, si rinvia la ratifica del trattato che modifica il Mes all’autunno per provare a strappare altri risultati su altri tavoli (Patto di stabilità, Pnrr, estensione dell’uso dello stesso Mes, copertura del posto lasciato libero da Panetta alla Bce), deve risultare ben chiara l’asticella fissata dall’Italia, altrimenti si risolve tutto in una tattica meramente dilatoria, in attesa di trovare le parole giuste per far passare come una vittoria quello che in realtà è solo un calcio alla lattina.

Come è stato osservato, viene anche il dubbio che Meloni parli tanto d’Europa per coprire ben altri problemi sul fronte interno di maggioranza in vista della prossima legge di bilancio: chi chiede la flat tax, chi l’aumento delle pensioni, chi nuove uscite anticipate, chi il taglio del cuneo, chi tredicesime più ricche, chi il rinnovo dei contratti pubblici travolti dall’inflazione.

L’autunno non sarà nel complesso facile, con la recessione che colpisce la Germania, il rialzo dei tassi e l’aumento della spesa per interessi sul debito pubblico.

Consiglio Ue

Sarebbe stato lo stesso Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel a chiedere a Giorgia Meloni di provare a mediare con i premier di Polonia e Ungheria per tentare di sbloccare l’impasse sul dossier migranti.

Allo stato si tratta di mediazione fallita.

Capiamo che, da copione, Meloni debba dichiarare di non sentirsi mai insoddisfatta da chi difende i propri “confini nazionali”, ma c’è poco da fare: il rifiuto molto sovranista degli amici della nostra Premier Polonia e Ungheria non fa affatto bene al nostro Paese.

Elezioni europee

“Io auspico fortemente che ci sia una lista comune di Renew Italia al prossimo Parlamento europeo poiché ritengo che le due battaglie decisive per il futuro di Renew si giochino proprio in Italia e in Francia”.

Queste le parole del nostro Sandro Gozi, eurodeputato di Renew Europe e segretario generale del Partito democratico europeo, a margine del del pre-summit Ue dei liberali Ue tenutosi a Bruxelles mercoledì.

Sandro ha poi spiegato che in Francia la coalizione guidata da Macron “deve confermare il risultato centrale per il Paese, ma l’altro grande Stato membro in cui c’è l’opportunità di fare davvero la differenza per Renew è l’Italia: con un buon risultato in entrambi i Paesi, francesi e italiani possono diventare un blocco centrale negli equilibri del gruppo e di tutto il Parlamento europeo”.

L’obiettivo rimane quello di risultare sufficientemente determinanti da evitare uno spostamento dei popolari verso le posizioni della destra populista e sovranista.

Rai

Certa stampa ha polemizzato sul fatto che il nuovo contratto di servizio in corso di stipula fra la Rai e il Ministero dello Sviluppo economico assomigli molto ad un manifesto politico. Si è contestata, fra l’altro, l’aggiunta della parola «natalità» all’obbligo già esistente di «diffondere i valori della famiglia e della genitorialità».

Al di là del fatto che già l’obbligo di diffondere i valori della famiglia e della genitorialità per qualcuno potrebbe essere considerato, al giorno d’oggi, non troppo neutro, il punto è sempre e solo uno ed è di una banalità disarmante: la concessione è una finzione.

Se il concessionario è detenuto dal Governo (il Mef) e se, per legge, nella nomina di ciascuno dei vertici dell’azienda e della Commissione di vigilanza sono direttamente coinvolti la Camera, il Senato e il Governo (al quale, come azionista, spetta di designare anche l’amministratore delegato), è inevitabile che gli equilibri politici e le tendenze della maggioranza di turno si riflettano sulla gestione aziendale.

Non serve ripetere di nuovo quale sarebbe l’unica soluzione per noi.

Per chi volesse approfondire, qui potete verificare come funzionino i sistemi radiotelevisivi pubblici di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.

Bolsonaro

Il Tribunale superiore elettorale ha condannato Jair Bolsonaro che per 8 anni non potrà ricandidarsi ad un pubblico ufficio.

Sono particolarmente interessanti i capi di condanna: abuso di potere politico e uso distorsivo dei media a fini elettorali, due fattispecie poste direttamente a salvaguardia del cittadino contro la propaganda politica.

L’episodio della riunione con gli ambasciatori del luglio 2022 (nel corso del quale Bolsonaro avrebbe tentato di screditare presso la comunità internazionale il sistema elettorale brasiliano e l’uso delle urne elettroniche), che ha portato l’ex Presidente a processo, è stata solo l’occasione da cui partire per esplorarne le responsabilità nelle trame cospirative, sfociate nell’attacco sovranista ai Palazzi della democrazia dell’8 gennaio a Brasilia.

Tra i più duri nel motivare la condanna è stato il relatore del procedimento, Benedito Goncalves. In un’udienza durata oltre tre ore e dedicata esclusivamente alla sua esposizione, il magistrato ha fatto leva sul documento golpista ritrovato in casa dell’ex ministro bolsonarista, Anderson Torres, per sottolineare come il leader sovranista abbia “flirtato pericolosamente col golpismo”, abbia spinto i suoi sostenitori verso “una paranoia collettiva”, diffondendo “fake news”.

Conti pubblici

La Corte dei conti ha presentato in settimana il giudizio di parificazione sul rendiconto generale 2022.

Lo ha fatto rivendicando anzitutto il suo ruolo di garanzia a salvaguardia dei principi costituzionali che presidiano la sana gestione finanziaria.

Nel giudizio la Corte dei Conti mette sull’attenti il governo in particolare su tre aspetti:

  • il fatto che secondo molte previsioni la crescita dell’Italia tornerà ad affievolirsi dopo il 2024, quando la bolla in cui per certi versi ci troviamo si esaurirà e torneranno al pettine i nodi irrisolti del nostro sistema paese;
  • la necessità di accrescere durevolmente il tasso di sviluppo e ridurre, contestualmente, il peso del debito pubblico nel nuovo quadro di governance europea;
  • il sistema perverso dei condoni fiscali, che, oltre ad incidere negativamente in termini equitativi e sul contributo di ciascuno al finanziamento dei servizi pubblici, rischiano di comportare ulteriori iniquità.

Per quanto riguarda i condoni siamo assolutamente d’accordo.

Se però al contempo non si semplifica il sistema fiscale rendendolo più efficiente e partecipabile, non andremo molto lontano.

Affirmative action

Una decisione molto importante della Corte Suprema degli USA ha dichiarato incostituzionale il sistema di quote adottato da diversi istituti d’istruzione statunitensi.

Si tratta di un sistema che, partendo dallo stesso principio che nel nostro sistema costituzionale legittima ad esempio le quote rosa (paragrafo 2 dell’art. 3 Cost.), tende a favorire l’ammissione di studenti ritenuti più svantaggiati perché appartenenti a minoranze etniche.

Da oggi, in base alla decisione della Corte Suprema, nessuna università statunitense potrà più avere quote riservate alle persone di etnia diversa dal quella bianca-caucasica.

Si tratta di una sentenza storica, che chiude un periodo di 60 anni iniziato con l’approvazione del Civil Rights Act del 1964, la legge che rappresentò il punto di arrivo del movimento anti-segregazionista.

Nato con le migliori intenzioni, il sistema c.d. della affirmative action avrebbe dovuto creare, in una società pluralistica come quella americana, una effettiva eguaglianza delle opportunità, a prescindere dal colore della pelle.

Nel tempo tale sistema si è però prestato anche ad usi distorti ed ha mutato la sua ragione legittimante, trasformando il principio liberale dell’eguaglianza delle opportunità in quello – più socialista – della eguaglianza dei risultati, in una società – come quella americana – che ha al centro l’idea sacra della libertà individuale.

La polarizzazione del dibattitto negli USA ha, dietro di sé, anche una forte componente di reazione all’eccesso di “ingegneria sociale” a favore dei gruppi etnici che in passato rappresentavano – e in una certa parte continuano sicuramente a rappresentare – le porzioni economicamente e socialmente marginali degli Stati Uniti.

L’uso distorto rispetto ai suoi obiettivi originari della affirmative action reca oggi in sé, negli USA, la stessa discutibile radice della c.d. cancel culture.

La sua abrogazione totale forse non è, però, la soluzione giusta, nemmeno per gli USA, perché a suo fondamento rimane pur sempre l’obiettivo (tutto liberale) di pareggiare i punti di partenza.

Appello per l’Iran

Aderiamo all’appello rivolto dalla Fondazione Luigi Einaudi ai media italiani affinché mantengano alta l’attenzione sull’Iran.

 Glossario politico: riformisti e riformatori

Chiariamoci: non si tratta di nominalismo. A sfogliare le pagine dei giornali, per chi ancora pratica questa preghiera laica quotidiana, o ad ascoltare i vari politici passati in rassegna da agenzie o televisioni, pare che oramai tutti si prendano la briga di autodefinirsi riformisti. Si dichiarano tali persino i conservatori, lo sono i socialisti, almeno quelli che non portano il cervello all’ammasso di qualche massimalismo a buon mercato. Pare che l’ultima moda – si fa per dire – sia quella che persino i liberali ogni tanto sbrodolino e si picchino ad invocare il proprio tasso di riformismo.

Riformismo è diventato sinonimo di chi vuol riformare gli ordinamenti, e persino la società, in cui opera. Pochi, pochissimi, si definiscono riformatori, come se definirsi tali fosse roba da nostalgici delle ghette e del redingote.

Ma siccome è vero che chi parla male pensa anche male, andrebbe usata maggior cura.

La politica, dopotutto e nonostante tutto, avrebbe uno stretto legame con la storia e con la storia delle idee. Tra gli strumenti di quest’ultima non può prescindersi da una qualche forma di epistemologia, intesa come generale teoria della conoscenza.

Ed allora sia consentito dire che mentre i liberali sono intimamente ignoranti, nel senso che sono consapevoli della pratica impossibilità di dominare tutti gli elementi che influiscono in una data società, i socialisti tendono ad esser maggiormente presuntuosi: confidano di poter dar forma alla società, modellarla, rivoltarla, emendarla dai propri errori per poter realizzare il socialismo, ovvero l’ideale di un mondo giusto.

Si pensi a come i liberali ed i socialisti tendano ad approcciarsi ad una istituzione sociale come il mercato.

Mentre per il liberale il mercato è infatti l’unico strumento collettivo che è in grado di fornire una risposta, approssimativa fin che si vuole, all’ignoranza. Ogni socialista, che lo riconosca o meno poco importa, deve postulare, per poter giustificare il proprio intervento di pretesa riforma, la perfetta conoscenza dei presupposti e delle conseguenze della propria azione.

Con questa abitudine fa il paio la pretesa di voler trovare una spiegazione per tutto, una legge unica di interpretazione della realtà, una chiave capace di aprire ogni porta dell’esistenza e dell’esperienza umana. E siccome le leggi del mercato non paiono soddisfacenti, si pensa di poterle facilmente modificare, alterare, correggere, convinti di poter indicare fini, scopi, mezzi ad una istituzione complessa.

Quella del socialista è la presunzione, per dirla con Einaudi, di essere il solo capace di rigenerare il mondo. L’ignoranza del liberale, che esige quindi la libertà anche nella sfera economica, è figlia della convinzione, frutto dell’esperienza, che «l’unica, vera garanzia della verità è la possibilità della sua contraddizione, che la principale molla del progresso spirituale e materiale è la possibilità di cercare e di adottare nuove vie senza il consenso dei dottori dell’università di Salamanca, senza attendere le direttive delle “superiori autorità”» (La riforma sociale, sett-ott 1918, 453-455).

Ed è per questo che il riformismo non può che caratterizzare, nella migliore, ed anche nobile, delle prospettive il socialismo. Per i socialisti l’ideale da perseguire è una qualche forma di società socialista: da quella messianica ed illiberale che ha caratterizzato una buona parte del mondo del XX secolo, a quella umanitaria e maggiormente liberale auspicata dal socialismo democratico o, se si preferisce, da quella sua particolare specie che fu il Socialismo Liberale di Carlo Rosselli. Ogni riforma è un passo graduale che tende verso quell’obiettivo. Il riformismo è intimamente finalista: persegue un risultato, che vuol raggiungere nel rispetto del conflittualismo e della democrazia: buona fortuna.

Essere riformatori, invece, è assai diverso. Non ci si prefigge un obiettivo determinato. Si è consapevoli che molti istituti di una data società meritino di esser rivisti, adeguati, cambiati, rifatti persino da capo a fondo. Ma per il riformatore liberale non esiste un fine ultimo cui approssimarsi gradualmente: già sarebbe tanto trovar il modo di garantire a ciascun individuo la massima libertà possibile e compatibile con la pari libertà altrui o, come diceva Oliver Wendell Holmes “il mio diritto di agitare il pugno in aria finisce dove inizia il naso altrui”.

Ciascun individuo, poi, tenderà di perseguire il proprio obiettivo della vita. Al fondo lo spirito riformatore ha trovato la sua più bella ed ispirante definizione nella dichiarazione di indipendenza americana, vergata da Thomas Jefferson, che volle riconoscere a ciascun cittadino il diritto alla ricerca della felicità. La ricerca, appunto, di qualcosa di personale, individuale. Per il riformista la misura della felicità è data per tutti. Per il riformatore è un processo faticoso, senza garanzie, senza obiettivi prestabiliti, compresi gli errori che si compiono in questo lungo percorso. Per il liberale resta sempre vero che è comunque preferibile il male libero che il bene imposto. Il primo ha in se la propria potenziale cura, il secondo nega l’essenza stessa del vero bene.

I libri della settimana

Uguaglianza di opportunità. Sì, ma quale? Di Elena Graniglia.

L’uguaglianza di opportunità è alla base di una democrazia avanzata: ma cosa intendiamo esattamente con questa espressione?

Quando ne parliamo pensiamo di riferirci tutti alla stessa cosa, ma non è così. Questo libro cerca di chiarirne il significato, esaminando tre interpretazioni e mostrandoci implicazioni e conseguenze sulle persone: l’uguaglianza di opportunità di partecipazione al mercato, che vede nell’istruzione il mezzo principale per assicurarla; l’uguaglianza di opportunità come compensazione delle disuguaglianze dovute alle circostanze; l’uguaglianza di opportunità come uguaglianza di capacità.

Elena Granaglia illustra le differenze tra queste concezioni, che hanno ricadute significativamente diverse sulle politiche sociali ed economiche da adottare, ed esprime la sua preferenza per la terza, quella elaborata da Amartya Sen e Martha Nussbaum.

Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce. Di Lorenzo Codogno e Giampalo Galli.

Da oltre un quarto di secolo l’economia italiana ha smesso di crescere. Svalutazioni e accumulo di debito pubblico, le droghe con cui si era forzata la crescita dagli anni Settanta, non sono più disponibili.

Per affrontare la competizione internazionale bisognava puntare sulla ricerca e sulla valorizzazione dei talenti. Invece, ad eccezione di un pugno di imprese manifatturiere che esportano, è in genere prevalsa la vecchia pratica delle raccomandazioni e delle sponsorizzazioni politiche per aver un posto di lavoro e per far carriera, e il merito è stato messo da parte.

E il problema riguarda quasi tutti gli ambiti della società: le università, le pubbliche amministrazioni, la politica, la magistratura, le Asl, il mercato del lavoro e persino la selezione dei manager e la finanza. Al contrario di quanto prevede la Costituzione e, per «i capaci e i meritevoli», se partono svantaggiati, in Italia le opportunità restano scarse.

Il tema della insufficiente considerazione del merito e degli incentivi distorti è il filo rosso che accompagna tutte le spiegazioni al cosiddetto «declino» economico italiano. Un primo passo per trovare soluzioni adeguate, è quello di avere piena coscienza dei problemi, che sono spesso, esplicitamente o implicitamente, negati.

 

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