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Newsletter Libdem n. 19 – 22/07/2023

La carne coltivata no

In aprile Time si chiedeva se l’Italia sarebbe stato il primo paese al mondo a bandire la carne coltivata (non chiamiamola sintetica) in laboratorio.

Ebbene, è successo.

Salumi, insaccati e carni lavorate favoriscono l’insorgenza di tumori all’apparato digerente (gruppo 1 della classificazione relativa), ma ne ammettiamo il commercio: chi vuole può consumarli.

Anche l’alcol è classificato nel gruppo 1, assieme all’amianto. Ma ne ammettiamo la vendita: chi vuole può consumarne quanto ne vuole.

Pure il fumo sta nel gruppo 1, ma chi vuole può scegliete di fumare.

Lo zucchero e il sale sono due nemici noti della salute. Anche in tal caso, nessun limite al loro consumo.

La carne coltivata estraendo cellule staminali da animali vivi, cellule che vengono poi coltivate creando grasso e tessuti muscolari, invece, non possiamo produrla e consumarla.

Nessuna facoltà di scelta.

Perché? Eh, non lo sa nessuno. Nemmeno il Senato che ne ha vietato la produzione.

Sapete, carne in laboratorio invece che da un allevamento intensivo, carne prodotta con metodi sostenibili, di scarso impatto ambientale, senza sgozzare maiali e macellare bovini: tutte cose molto poco “tradizionali”, poco “naturali”.

Molto meglio sgozzare un maiale che incentivare la ricerca biotecnologica.

Non siamo pronti. E poi, come si può scontentare la lobby di Coldiretti? Come si fa ad inimicarsi i piccoli allevatori? Gente – come i tassisti – che se la scontenti imbraccia i forconi.

Chissenefrega se la carne coltivata potrebbe ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, mitigare il cambiamento climatico, garantire maggior sicurezza alimentare e contribuire a risolvere il problema della fame in un mondo sovraffollato.

Ogni anno vengono allevati, e in gran parte torturati, negli allevamenti intensivi, 60 miliardi di animali. Da poche cellule e in poche settimane si potrebbe invece ottenere la stessa quantità di carne per la quale, altrimenti, ci vorrebbe almeno un anno e mezzo di allevamento.

La tradizione e la conservazione prima di tutto, perché nell’ignoto dell’innovazione non ci stanno voti.

Ma alla fine ci arriveremo anche noi.

Sappiamo come funziona: gli altri fanno le cose, avanzano nella tecnologia, nella ricerca e nell’innovazione (in una parola: nella libertà), ridurranno lo sfruttamento di animali e ridurranno l’impatto ambientale della produzione, aumentando, anche per questo, il proprio benessere.

Quando l’avanzamento degli altri sarà evidente alla fine ci arriveremo anche noi.

In fondo, ci sarà un motivo se la prima TV a colori venne messa in vendita nel 1953 e in Italia arrivò solo nel 1977.

Questa è la libertà in Italia: un po’ alla volta, arrancando.

A noi non va bene. Amici conservatori, mettetevela via: noi saremo sempre i guastafeste.

 

Aria di rimpasto nel Governo?

Fronte interno caldo per il Governo. I problemi si chiamano Santanchè, Delmastro e La Russa.

La Ministra del Turismo affronterà mercoledì la mozione di sfiducia, ma la premier è infastidita da quanto sta venendo fuori sull’attività manageriale.

Malumori anche nel Ministero del Turismo, da dove non giungono gli apprezzamenti attesi.

Delmastro appare blindato, anche dovesse andare a giudizio e almeno fino al terzo grado. Non è escluso che si esplori per lui un incarico di Governo ma in diverso ministero.

La Russa non si tocca, anche perché ha capito di aver esagerato e si è messo zitto. Come ha fatto, da tempo, il ministro-cognato, Francesco Lollobrigida, che dopo qualche intemerata sulla “sostituzione etnica” si è messo pancia a terra a lavorare e parlare meno.

Ieri Il Foglio ipotizzava una candidatura alle Europee: nel caso sarebbe una promozione, Commissario europeo per l’agricoltura.

Aiuto.

 

Europa

In settimana Sandro Gozi ha rilasciato una bella e lunga intervista sul futuro dell’Europa e le prossime elezioni europee.

Sandro ha rivendicato, in particolare, il ruolo di Renew Europe nel percorso di trasformazione dell’Europa cominciato nel 2019, dettando l’agenda politica su grandi priorità: il tema dello Stato di diritto, quello della transizione ecologica e quella digitale, l’innovazione e il tema della riforma della governance, di come funziona l’Unione europea e la democrazia, le istituzioni con le liste elettorali transnazionali, proponendo la conferenza del futuro dell’Europa.

Il nostro compito ora è quello di costruire una nuova maggioranza europeista fedele ai nostri principi, perché ci sono delle nuove priorità, a causa di quello che è successo nel frattempo, la guerra in Ucraina lo sviluppo dei rapporti con l’Africa, con la Cina.

Quanto ai possibili nuovi assetti di maggioranza, Sandro è stato molto chiaro: “questa storia di cui parlano Weber (presidente del gruppo PPE)  Antonio Tajani,  su mandato di Meloni, e Roberta Metzola (presidente del Parlamento europeo) con l’opportunismo che la caratterizza, di riprodurre a livello europeo lo sgangherato bipolarismo italiano mi sembra una proposta irrealistica e velleitaria e Tajani lo sa benissimo che quello che dice è irrealistico e velleitario come sa benissimo che lui non è stato eletto alla presidenza del Parlamento europeo nel 2017 come lui dice da una alleanza di liberali popolari e conservatori”.

Come abbiamo già detto, a settembre ci faremo promotori di un’iniziativa che chiami a raccolta sotto il nome unitario di Renew Europe tutte le forze della nostra area: un obiettivo ambizioso, ma importante, se vogliamo massimizzare il risultato alle prossime elezioni europee.

 

La liberazione di Patrick Zaki

Ci piange ancora il cuore per la barbara uccisione di Giulio Regeni. Ma ci ritroviamo molto nelle parole di Claudia Fusani, che in settimana ha spiegato come sia un gioco delle parti piuttosto sterile e inutile chiedere oggi “verità” per Giulio Regeni.

Si tratta di rapporti, soprattutto commerciali, di carette geopolitico.

La liberazione di Zaki (ti spettiamo tutti) apre una nuova fase nei rapporti con l’Egitto, poi si capirà perché e nell’interesse di chi, esattamente.

Sono i rapporti tra Europa e Africa, tra Italia e Africa, a suo modo il Memorandum firmato a Tunisi domenica scorsa, quel team Europa von der Leyen-Meloni-Rutte che promette in diretta tv 900 milioni a prescindere da quanto saranno realmente.

Persino i nuovi equilibri a est, la Russia di Putin, la Cina di Xi e la Turchia di Erdogan, tutto questo si tiene della storia della grazia a Patrick Zaki.

Non c’entrano, purtroppo, i diritti e un sussulto democratico in loro difesa. C’entra tutto il resto. Ecco perché è giusto tributare una parte di questo “successo” al governo Meloni e al metodo Tajani.

Ma tutto questo comincia assai prima di loro e indipendentemente da loro.

Ed ecco perché risulta un gioco delle parti sterile e inutile chiedere oggi “verità” per Giulio Regeni.

 

La nostra Ministra del Turismo

Come ha rilevato Oscar in settimana, le cronache politiche avvampano per la vicenda giudiziaria che investe il ministro Santanché. Neanche una frazione dell’attenzione viene riservata, invece, al tema di cui il suo ministero si occupa, il turismo.

Un gran peccato: perché il turismo da sempre domina nella convegnistica nazionale e locale come “petrolio d’Italia”.

Sebbene la frammentazione di competenze Stato-Regioni non aiuti, una svolta vera non avviene però soprattutto perché la politica non se la sente, di indicare alcune priorità vere su cui puntare.

Il timore è lo stesso che si legge nella vicenda dei balneari: inimicarsi vaste parti di un’offerta iperfrazionata e largamente sottocapitalizzata per investire in quel che si potrebbe e dovrebbe. Basta pescare a caso da un oceano di dati sul turismo, per insospettirsi.

Nel recente rapporto annuale ISTAT 2023 si legge l’aggiornamento statistico relativo ai 22 brand italiani di maggior attrattività turistico-territoriali che negli anni l’istituto ha classificato: dieci nell’Italia del Nord, nove al Sud e tre nel Centro Italia.

Dovrebbero rappresentare la prima leva da potenziare: lavorare sulle eccellenze a maggior moltiplicatore, invece di disperdersi nelle migliaia di borghi. Se consideriamo il tasso di ricettività (numero di posti letto offerti per 100 abitanti) c’è una scala precisa di dove puntare: si va dagli oltre 80 posti letto delle valli dolomitiche, ai poco più di 11 del Salento e lago di Como che andrebbero potenziati.

Se si vuole graduare l’impatto sulla popolazione residente per evidenti ragioni di sostenibilità, basta guardare all’indice di pressione turistica: si va dalle ipercongestionate 200 presenze per abitante nelle Dolomiti, ai poco più o poco meno di 5 in Salento e nelle Langhe.

Ma non c’è traccia di questo, nel Piano Strategico per il Turismo presentato dal governo alle Camere la scorsa primavera.

 

Finanziamento pubblico dei partiti

Ricorderete la posizione del M5S sul finanziamento pubblico dei partiti.

Nel 2021 il Blog delle Stelle contestava la ripartizione del 2 per mille chiedendosi provocatoriamente: ma il finanziamento pubblico non doveva essere abolito?

Ebbene, anche questo tabù si è rotto.

Il senatore Pattuanelli, Capogruppo al Senato, ha infatti sostenuto che «è necessario reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti».

«I cittadini devono sapere – ha aggiunto Pattuanelli – quale nodo da sciogliere sta dietro il finanziamento: bisogna garantire alle forze politiche l’esercizio delle loro funzioni democratiche».

Fare politica costa, vero?

No comment.

 

Trump

Sono 37 i capi di imputazione dai quali l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrà difendersi nel corso del processo sui documenti sottratti dalla Casa Bianca e trovati dagli inquirenti nella sua casa privata di Mar a Lago, in Florida.

Un giudice federale ha stabilito che il processo inizierà il 20 maggio 2024, pochi mesi prima delle elezioni presidenziali di novembre.

Come ricorderete, quando Donald Trump lasciò la Casa Bianca nel gennaio 2021, portò con sé intere scatole di documenti. Una legge del 1978 impone a tutti i presidenti degli Stati Uniti di inviare tutte le loro e-mail, lettere e altri documenti di lavoro all’Archivio Nazionale.

Nel gennaio 2022, dopo diversi solleciti, Trump restituì 15 scatole, ma ne conservò altre nella sua lussuosa residenza di Mar-a-Lago, rinvenute nella spettacolare perquisizione dell’FBI dell’8 agosto 2022.

Accusato di aver messo in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti, Donald Trump è stato incriminato con accuse federali all’inizio di giugno, una prima volta per un ex presidente degli Stati Uniti.

“I documenti classificati che teneva nelle scatole includono informazioni sulla difesa e sugli armamenti degli Stati Uniti e dei Paesi stranieri”, secondo l’accusa.

Siamo di fronte a un processo politico?

Questa, naturalmente, la scontata difesa.

Siamo invece di fronte ad uno scrutinio dell’esercizio del potere. Sacrosanta prerogativa di una democrazia liberale basata sullo stato di diritto.

 

Un ricordo di Sergio Ricossa

Da leggere l’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni in ricordo di Sergio Ricossa.

Nel pensiero di Ricossa, appassionato storico della Rivoluzione Industriale, gioca un ruolo fondamentale il concetto di innovazione:

“Non si può negare che il mercato, coi suoi tentativi ed esperimenti, molti dei quali destinati a fallire, ‘spreca’ rispetto a un immaginario esperto, il quale per ipotesi conosca a priori chi e cosa riuscirà meglio: è inutile giocare la gara, se si sa in anticipo chi la vincerà e come la vincerà. (…) Il fatto è che i cosiddetti esperti non sono le persone più adatte a giudicare le novità tecnologiche e merceologiche il cui scopo sia la conquista dei consumatori. Gli esperti possono saper tutto del passato e del presente, fino a memorizzare nei loro calcolatori tutte le funzioni di utilità degli individui nella popolazione: ma sanno poco o nulla del futuro (come noi). Se non che le novità si propongono proprio di cambiare il passato e il presente, e dunque riguardano essenzialmente il futuro, un futuro diverso e inconoscibile. Più le novità sono ‘nuove’, e più gli esperti sono privi di precedenti ai quali riferirsi per intuire quel che succederà”.

 

Glossario politico: democrazia liberale

Quante volte si legge, o si sente affermare, da questo o quel politico – di norma un politico della maggioranza in quel momento al potere – “dobbiamo farlo, perché ce lo chiedono gli elettori”.

Una tale affermazione viene forse ignorata nella sua portata perché la si ritiene ovvia, scontata, coerente col significato letterale del termine “democrazia”, appunto: il governo del popolo.

In realtà, da una prospettiva coerentemente liberale, quella invocazione è falsa. La democrazia, sotto questo aspetto, è controintuitiva.

In un lontano saggio del 1958 (Miti e realtà della democrazia), Maranini notava come le “grandi democrazie storiche sono in verità (…) complicati e validi sistemi di difesa contro la maggioranza, contro gli stessi organi dello Stato, contro il potere politico a favore degli individui delle minoranze”.

Quella che viene descritta, infatti, è l’essenza stessa della democrazia liberale, ove l’aggettivo liberale è più qualificante del sostantivo democrazia.

La democrazia, intesa come accesso di un numero crescente di popolazione alla partecipazione politica, è una vicenda in realtà relativamente recente.

Alle origini, quelle stesse esigenze di difesa degli individui e delle minoranze avevano come principale avversario il potere assoluto dello Stato.

A cavallo tra il sedicesimo ed il diciassettesimo secolo Edward Coke, un giurista inglese, guidò la lotta contro l’assolutismo che i sovrani Stuart volevano imporre in Inghilterra, come già stava avvenendo nell’Europa continentale.

Coke aveva come suoi alleati i dissidenti religiosi ed il prestigio che la common law si era già guadagnato.

A Coke si deve anche la cura dei Reports, che raccoglievano i principi fondanti di quella speciale epifania del diritto, i semi di quella difesa ante litteram liberale dei diritti degli individui contro il potere dello Stato.

I Reports viaggiarono nelle valigie dei Padri Pellegrini che andarono a colonizzare il Nuovo Mondo: quei semi, ben piantati e ottimamente coltivati, frutteranno a fine 1700 i principi ispiratori della Costituzione americana.

Ed è proprio la riflessione americana che chiarisce il significato che oggi noi attribuiamo alla democrazia, intesa come democrazia liberale.

Tutta intera l’esperienza costituzionale americana è tessuta nell’intimo conflitto che esiste tra il momento della libertà (o dell’individuo) e della democrazia (o del collettivo): dal Bill of Rights che coi suoi emendamenti stabilisce un argine a qualsiasi maggioranza parlamentare (e ad ogni altro potere), alla struttura federale della Repubblica (tanto che con il Connecticut compromise si stabilì che ciascuno stato avrebbe avuto un numero uguale di senatori, proprio per temperare il principio democratico).

E che questa dialettica sia ineliminabile nella moderna democrazia venne chiarito in modo adamantino da Tocqueville, per il quale il conflitto del mondo moderno si risolve nella alternativa fra democrazia liberale e democrazia dispotica, ovvero fra “libertà democratica o Cesarismo” (nella Democrazia in America, vol. II, cap. IX, in fine).

Quale è, dunque il tratto caratteristico della democrazia liberale?

Forse la miglior risposta la troviamo nella famosa orazione funebre di Pericle: “benché soltanto pochi siano in grado di dar vita ad una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla”.

La riflessione di Pericle non è casuale. Ad essa si rifece Karl Popper nel tentativo di fornire una definizione della democrazia che sia coerente coi presupposti di una società aperta, come tale tollerante e liberale.

Così giungendo alla conclusione che sia irrazionale e sbagliato (per non dire pericoloso) ritenere che la democrazia debba fornire risposta alla domanda “Chi deve comandare/governare”.

La domanda razionale, secondo i principi liberali, non può che essere, quindi, “Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”.

Non, quindi, chi debba governare, ma come controllare chi comanda, fino al punto di rimuoverli dal potere. Questo vogliono sapere uomini fallibili e non dispensatori di verità, che ambiscano a costruire, perfezionare e difendere le istituzioni democratiche, al cui interno possano convivere, liberamente, i portatori di idee ed ideali tra essi diversi e magari persino contrastanti.

Se abbandoniamo, quindi, l’idea di democrazia come governo del popolo (coi suoi tristi corollari potenzialmente illiberali e totalitari), molto più utile è definire la democrazia come il modello di organizzazione sociale incentrato sul giudizio del popolo.

Se la democrazia è quindi giudizio del popolo – e non governo del popolo – si giunge ad una ulteriore conseguenza controintuitiva: lo Stato democratico liberale porta con sé una incompatibilità tra il parlamento e la sovranità popolare, intesa appunto come governo popolare (così Colletti, Lezioni di filosofia politica).

Si dirà, come possono esser incompatibili il parlamento e la sovranità popolare? Lo sono se, come visto in apertura, i rappresentanti politici invocano le domande degli elettori o ancor peggio l’incarico ricevuto dagli elettori.

Perché così facendo quei (cattivi) politici erodono la portata del principio cardine del parlamentarismo, ovvero il divieto di mandato imperativo, come venne definitivamente descritto nel celebre discorso agli elettori di Bristol tenuto da Edmund Burke nel 1774.

L’eletto, infatti, deve decidere in piena autonomia e secondo la massima libertà cosa sia giusto proporre, votare. Questo è il senso ed il ruolo del parlamento. Alla scadenza del suo mandato gli elettori lo potranno confermare o meno: al fondo la democrazia si fonda sulla possibilità di cambiare i governanti e i rappresentanti senza alcun spargimento di sangue: le teste si contano, non si rompono, in democrazia.

Il mito di una generale democrazia diretta, oggi apparentemente resa più facile dalle nuove tecnologie, è un falso mito. Il mondo è sempre più complesso, le scelte che devono esser compiute richiederebbero una preparazione ed un approfondimento che nessuno di noi elettori può realmente compiere mentre è impegnato nelle faccende quotidiane.

La necessità di una rappresentanza politica riposa proprio in questo: la pluralità delle opinioni in parlamento è una ricchezza, ed il confronto che nasce nella discussione è l’occasione per affinare le proprie opinioni e magari per superarle in favore di altre opinioni preferibili.

Di qui la sciagura, ed il profondo senso antidemocratico, della riduzione del numero dei parlamentari, fatto poi per il peggiore dei motivi: la riduzione dei costi (tra l’altro: che non sono nemmeno ridotti), come se la democrazia fosse, appunto, un mero costo.

L’esatto contrario: la democrazia liberale è una ricchezza, per tutti.

 

Il libro della settimana (perché noi li leggiamo, Ministro)

Come si manda in rovina un paese, di Sergio Ricossa.

Sergio Ricossa, ineguagliato maestro di liberalismo, raccoglie in questo volume parti del diario da lui tenuto dal 1944 al 1994. È un commento schietto e dissacrante della vita pubblica italiana, realizzato con materiali di difficile reperimento: ironia, cultura, finezza critica.

Ed è un confortevole viaggio nella storia del nostro Paese. La sua durata, cinquant’anni, può forse impressionare.

Ma l’itinerario si percorre agilmente, senza fatica, tanto che si ha poi voglia, giunti alla fine, di ricominciare daccapo. La stazione di partenza è rappresentata dall’opera di ricostruzione compiuta nel secondo dopoguerra. Si giunge man mano in tante altre stazioni, che segnano però un radicale cambiamento dell’originaria direzione di marcia.

Ricossa ci fornisce le istruzioni attraverso cui afferrare il senso di tale cambiamento. E la sua storia diviene un’incalzante narrazione dei danni provocati dalle interferenze del potere pubblico nell’economia. Si comprende allora che la crisi di oggi ha alle spalle una lunga incubazione.

La sua dinamica, reiterativa, monotona, è quella dell’interventismo.

Promette sempre di affrancarci dalle “impietose” leggi del mercato. Realizza solamente la sistematica distruzione di una rilevante parte delle risorse prodotte dai cittadini. Prefazione di Lorenzo Infantino.

 

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