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Newsletter Libdem n. 30 – 7/10/2023

Due cose su di noi

Non siamo inermi, non ci stiamo relegando al ruolo di spettatori passivi rispetto alle elezioni europee, alle connesse questioni di posizionamento e alle liti dentro il fronte liberaldemocratico.

Ve lo assicuriamo e vi chiediamo ancora di prestare fiducia.

Siamo in una fase di valutazione ed elaborazione su tutti i fronti.

E presto chiederemo anche la vostra opinione sul da farsi. Entro la fine del mese di novembre indiremo un incontro aperto a tutti gli iscritti, nel corso del quale vorremmo dare la parola a voi e dibattere tutti assieme liberamente.

Keep the faith. La missione di dare una rappresentanza liberale all’Italia è sempre più urgente e importante.

L’indipendenza è anche una questione di apparenza

No, non ci è certamente piaciuta la pubblicazione da parte di Salvini del video della manifestazione del 2018 in cui compare la giudice di Catania Iolanda Apostolico. Niente di ciò che fa Salvini ci piace.

Ma non ci piace nemmeno vedere un giudice ad una manifestazione politica. Esattamente come non ci piace (anche se non ci stupisce) vedere Conte e Schlein ad un congresso di una corrente della magistratura (e pure l’esistenza di correnti politicamente orientate della magistratura non ci piace, ecco).

L’indipendenza è anche una questione di manifestazioni esterne. E di percezione.

Non pensiamo certo che il magistrato debba vivere isolato e indifferente rispetto alla realtà, chiuso nella torre d’avorio del suo tecnicismo.

Il magistrato è un cittadino. Ma non un cittadino qualsiasi. Ci sono professioni che impongono delle limitazioni, dei sacrifici, non c’è nulla di strano.

Facciamo nostre le parole della Corte costituzionale: “Ai magistrati è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, e per tale ragione sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto” (Corte cost., 12/11/2018, sent. n. 197).

La giudice Apostolico non avrà commesso alcun illecito disciplinare nel partecipare a quella manifestazione e sarà stata sicuramente in buona fede.

Il caso scoppiato dimostra però che quantomeno una questione di opportunità dovrebbe imporre di astenersi dal prendere parte attiva e manifesta a simili eventi. Così come dovrebbe imporre di non palesare alcuna opinione politica sui social network (il che è stato attribuito senza smentite alla stessa giudice).

L’indipedenza agli occhi della collettività è anche – e forse soprattutto – una questione di apparenza.

Nemmeno Meloni si salva

Di Salvini inutile parlare, ma nemmeno Giorgia Meloni si salva.

Sulla sentenza della giudice Apostolico, che ha disapplicato alcune parti del c.d. decreto Cutro ritenendole in violazione della normativa europea, Giorgia ha sostanzialmente tacciato il tribunale di insubordinazione, mettendola – secondo un copione ormai stantio – sull’interesse nazionale.

Di più, definendo la sentenza un attacco al «governo democraticamente eletto», ossia, nella sostanza, accusando la magistratura di sovversione della sovranità popolare.

Ma come si fa?

Alla fine anche Giorgia Meloni tradisce la sua vena populista.

In Italia la disinformazione è da primato

È un record tutto italiano: nei primi sei mesi dell’anno sono stati rimossi da Facebook oltre 45 mila contenuti perché “violavano le politiche di disinformazione dannosa per la salute o di interferenza con gli elettori nei Paesi degli stati membri dell’Ue”. È quanto emerge dal rapporto della Commissione europea sull’attuazione del Codice di condotta da parte delle piattaforme social.

Il secondo Paese per contenuti rimossi dal social di Meta è la Germania con però meno della metà rispetto all’Italia, 22 mila contenuti. Seguono la Spagna (16 mila); i Paesi Bassi (13 mila) e la Francia (12 mila).

L’Italia è dunque il Paese europeo in cui si fa più disinformazione.

Qualche idea sul perché ce l’abbiamo.

In Italia la quota di cittadini in possesso almeno di un titolo di studio di scuola superiore è pari a 62,9%, un valore decisamente inferiore a quello medio europeo (79,0% nell’Ue27) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione. Inoltre, in Italia solo il 20,1% della popolazione (di 25-64 anni) possiede una laurea contro il 32,8% nell’Ue.

Sipario.

Gli amici di Giorgia meloni in Europa continuano a voltare le spalle all’Italia

Al centro del Consiglio europeo informale che si è concluso ieri a Granada c’è stata anzitutto l’immigrazione

Il tema migranti richiede decisioni a breve, si tratta di “una crisi europea, etica e umanitaria, con bande criminali che sfruttano e traggono profitto dalla miseria dei più vulnerabili” si legge nella lettera congiunta tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il premier britannico Sunak diffusa al termine di un vertice convocato a sorpresa dai due.

Il Consiglio odierno si è concluso con una dichiarazione di 27 Paesi approvata all’unanimità in tutte le sue parti tranne che in quella relativa ai migranti a causa del veto di Polonia e Ungheria.

È stata sostituita da una dichiarazione “separata” del presidente del Consiglio Ue Charles Michel: “La migrazione è una sfida europea che richiede una risposta europea. La migrazione irregolare deve essere affrontata immediatamente e in modo determinato. Non permetteremo ai trafficanti di decidere chi entra nella Ue”.

Le ragioni dello stop di Budapest e Varsavia sono effetto del regolamento sulle situazioni di crisi, per il quale si sarebbe dovuto procedere a maggioranza qualificata e non all’unanimità. Nonostante il tipo di voto sarebbe corretto dal punto di vista formale – giuridicamente non è necessario per le decisioni del Consiglio UE su questioni migratorie – Orban e Morawiecki contestano che nei precedenti vertici europei (dicembre 2016, giugno 2018 e giugno 2019) si sia parlato di ricerca del consenso e che quindi ricollocazione e il reinsediamento dovrebbero essere applicati su base volontaria.

Ciò che viene contestato da Polonia e Ungheria è che le questioni sulle migrazioni non possono essere approvate solo a maggioranza, in base alle conclusioni del vertice del giugno 2018, dove si parla di ‘consensus’, ovvero unanimità, per la riforma del Regolamento di Dublino.

“Se sei legalmente stuprato, costretto ad accettare qualcosa che non ti piace, come pensi di raggiungere un compromesso? È impossibile”, è stata la provocazione del premier ungherese Orban, escludendo ogni possibilità di accordo “non solo ora ma anche negli anni a venire”.

Gli ha fatto eco Morawiecki: “Sono il Primo Ministro della Repubblica di Polonia. Sono responsabile della sicurezza della Polonia e dei suoi cittadini. Pertanto, in qualità di politico responsabile, respingo ufficialmente l’intero paragrafo delle conclusioni del vertice sulla migrazione. La Polonia è e rimarrà sicura sotto il governo del PiS” ha postato su X.

E, a conclusione dei lavori, si è levata la voce del primo ministro ceco Fiala: “Respingiamo l’introduzione di una redistribuzione obbligatoria dei migranti tra gli Stati membri perché non è né giusta né praticabile”.  Al summit “è emerso un chiaro consenso sul fatto che la migrazione illegale debba essere affrontata attivamente insieme. Dal punto di vista ceco, è essenziale rafforzare la protezione e la gestione delle frontiere esterne, prevenire la migrazione illegale, combattere i contrabbandieri e rendere più efficace la politica di rimpatrio”.

Il no di Polonia e Ungheria “è una posizione che comprendo perfettamente” ha ovviamente detto Giorgia Meloni, secondo il copione standard per cui se un politico fa gli interessi “nazionali” non sbaglia mai.

Molto pragmatiche le dichiarazioni seguenti, invece: “L’Italia ha votato il Patto migrazione e asilo, perché le nuove regole sono per noi migliori delle precedenti. Ma io non ho portato questa come priorità. Finché continuiamo a parlare di come distribuiamo queste persone all’interno dell’Ue non solo produciamo un pull factor, cioè un richiamo, ma soprattutto nessuno può pensare di risolvere il problema in casa sua scaricandolo su un altro. (…) L’importante è riuscire, non importa quanto tempo servirà, preferisco trovare una soluzione strutturale a un fenomeno che altrimenti sarà sempre fuori controllo”.

Granada ha portato anche un “disgelo” tra Roma e Berlino. Dopo due settimane di tensione, è arrivata una “tregua” tra Giorgia Meloni e Olaf Scholz. La presidente del Consiglio e il cancelliere tedesco si sono incontrati a margine del Consiglio. Un incontro preparato dalle diplomazie, dopo i botta e risposta sui fondi concessi da Berlino a Ong impegnate nei salvataggi di migranti in Italia, poi dall’emendamento tedesco (successivamente ritirato) a favore delle stesse Ong presentato al Patto per le migrazioni e l’asilo.

Scholz, in conferenza stampa, ha confermato il riavvicinamento: “Con Meloni in modo molto pratico abbiamo concordato che non lavoriamo gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri” ha detto, precisando che sui finanziamenti alle Ong non decide lui, ma il Bundestag (cioè il Parlamento).

Le ambizioni di Giuseppe Conte

Come svela Il Riformista, a spiegare candidamente le ambizioni di Giuseppe Conte è un parlamentare del M5s, al riparo da occhi indiscreti, in uno dei corridoi di Montecitorio. “L’unico leader in grado di battere questo centrodestra è Conte, d’altronde non sappiamo nemmeno se l’anno prossimo Schlein sarà ancora la segretaria del Pd”, spiega il deputato a taccuini chiusi.

Gli eletti del M5s, che prima se la prendevano con il “partito personale di Conte”, adesso pensano che questa deriva personalistica sia l’unica carta nel mazzo dei pentastellati per la sopravvivenza del Movimento fondato da Beppe Grillo.

Un’altra forza politica basata sul consenso del leader, dunque. Altro che l’uno vale uno dei pionieri del grillismo. Nella testa di Conte, è proprio questa non scalabilità dei Cinque Stelle, accoppiata a una cronaca mancanza di leader all’interno del Pd, a fornirgli una possibilità per realizzare il suo sogno.

In bocca al lupo, Italia.

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Putin si ricandida

In Occidente e in Russia è tempo di campagne elettorali. E per Vladimir Putin l’occasione per gongolare.

La vittoria del populista Robert Fico in Slovacchia e il taglio degli aiuti a Kiev dal bilancio temporaneo approvato dal Congresso statunitense costituiscono un dolce antipasto di quello che spera possa accadere nei prossimi mesi: una vittoria dei disgreganti fronti nazionalisti.

Secondo fonti del Cremlino Putin annuncerà a novembre la sua candidatura per un quinto mandato da presidente della Russia.

Il lancio della campagna per le presidenziali del 17 marzo 2024 potrebbe avvenire in occasione di una visita di Putin all’Expo russa ma nei fatti è già iniziata, sia con dichiarazioni che con la campagna bellica e di propaganda.

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Come sta davvero l’economia russa

Sarà anche data in crescita grazie all’aumento dei prezzi di petrolio e gas, agli interscambi con i paesi del Sud del mondo e all’aggiramento delle sanzioni, ma l’economia russa oggi è soprattutto un’economia di guerra.

La carenza di manodopera e soprattutto di lavoratori qualificati, a causa del loro arruolamento per la guerra con l’Ucraina, i casi di nazionalizzazione (se ne conoscono una trentina) di grandi aziende, i gravi problemi sperimentati nei settori economici legati alla logistica per la necessità di riorientare le soluzioni logistiche da ovest a est, il deterioramento della qualità dei beni di consumo.

Come riporta l’ISPI, il governo russo ha dichiarato che, nel 2024, le spese per la difesa ammonteranno all’equivalente di 108 miliardi di dollari: il triplo del 2021, l’ultimo anno pre-invasione, e il 70% in più rispetto a quanto previsto per il 2023.

Per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina, Mosca sembra disposta a utilizzare ogni risorsa disponibile, fra tasse straordinarie e “donazioni volontarie” imposte alle aziende occidentali che lasciano la Russia. Una pressione eccezionale sull’economia, che spiega in parte anche la crescita del PIL russo registrata nel breve termine, ma che comunque costringe il Cremlino a fare scelte molto difficili: cosa tagliare, tra sussidi e welfare.

Machado

La più popolare leader dell’opposizione venezuelana ha fatto attendere i suoi sostenitori per quattro ore giovedì, mentre superava il percorso a ostacoli predisposto per lei dal governo.

María Corina Machado ha avuto bisogno di tre auto diverse per superare i posti di blocco militari e i manifestanti pro-regime aizzati contro di lei dal governo che le sbarravano la strada verso Valencia, a circa 100 miglia a ovest della capitale, per tenere un comizio elettorale.

In Venezuela sta succedendo, sì. Una candidata di ispirazione liberale guida i sondaggi per le primarie d’opposizione e si appresta a sfidare Maduro alle prossime elezioni presidenziali.

E lo fa, attenzione, da dentro il sistema, rappresentando la parte migliore del sistema, quella che non si è data mai per vinta di fronte ai soprusi del regime.

Non si tratta di un’altra forma di populismo uguale e contraria a quella del chavismo che aizza le masse contro falsi nemici.

Machado fa politica da decenni e si candida con idee di grande concretezza per il futuro del Venezuela.

Machado definisce se stessa – e il suo partito, Vente Venezuela – come “liberale” sia politicamente che economicamente.

La sua visione politica ruota attorno alla riduzione delle dimensioni dello Stato come fornitore di politiche pubbliche, sostenendo l’imprenditorialità e promuovendo il libero mercato, come mezzo per creare ricchezza e posti di lavoro in un’economia devastata.

La sua idea del governo è simile a quella che avevano in mente Margaret Thatcher o Ronald Reagan e, stando al Sud America, l’ex presidente cileno Sebastián Piñera, di centro-destra, che assunse due mandati (2010-2014, 2018-2022).

“Margaret Thatcher ha avuto il coraggio di difendere i suoi valori per tutta la vita contro tutti quelli che le si opponevano”, twittò Machado nel 2013, forse alludendo a se stessa.

Dopo la morte della Thatcher trascorse un decennio a destreggiarsi tra il regime chavista – guidato da Nicolás Maduro dopo la morte del suo predecessore – e la stessa opposizione.

Solo ora si è guadagnata un grande seguito.

“Se sradicare la povertà come compito dell’intera società è un’idea di sinistra, allora sono di sinistra. Se credere nella libertà personale, negli investimenti, nella produttività è una posizione di destra, allora sono di destra”, disse nel 2012.

Influenzata da economisti come Ludwig Von Mises e Milton Friedman, Machado ha un’interpretazione della politica locale che si colloca a destra dei tradizionali partiti democratici venezuelani, che governavano il Paese da prima che Chávez prendesse il potere nel 1999.

La sua visione sulla distribuzione dei fondi sociali è più americana che europea, così come il suo discorso profondamente anticomunista.

Machado si sta muovendo con determinazione verso le urne.

È convinta che il governo le abbia fatto un favore annunciando – senza alcuna base legale – la sua squalifica dal processo elettorale.

Da allora ha rilanciato la sua candidatura – sia all’interno che all’esterno del Paese – per le primarie presidenziali del 22 ottobre. Anche se è stata squalificata dai tribunali controllati dai chavisti, la gente grida a María Corina nelle strade: “Ti abilito con il mio voto!”.

La destituzione di McCharty

Gli Stati Uniti non hanno più il leader della Camera, proprio mentre dovrebbero approvare la legge di bilancio per finanziare il governo, inclusi gli aiuti militari all’Ucraina nella fase cruciale della controffensiva.

Una lotta fratricida interna al Gop, che dimostra come il dominio dell’ex presidente Trump stia spaccando non solo l’America, ma anche i suoi alleati più stretti.

Non era mai successo. Nessuno speaker era mai stato sfiduciato.

Formalmente i repubblicani lo accusavano di aver evitato lo shutdown con il sostegno dei dem e di avere un accordo segreto con Biden per finanziare Kiev.

Dopo la sfiducia, McCarthy ha paragonato Putin a Hitler e difeso la decisione di aprire una inchiesta per l’impeachment di Biden, spiegando che non si candiderà di nuovo alla poltrona di speaker.

Il voto per eleggere il successore è stato fissato per la prossima settimana. Tra i candidati potrebbe esserci Steve Scalise, il suo ex numero due: origini italiane (i suoi avi immigrarono in Louisiana nell’Ottocento), è in terapia per un cancro, ma si sarebbe già messo in movimento – secondo il sito Politico – per valutare se ha i voti per essere eletto.

Nel 2002 Scalise fu criticato per aver parlato ad un incontro di un gruppo suprematista; si è invece conquistato il rispetto di molti dopo essere sopravvissuto a un attentato di un estremista di sinistra che gli sparò nel 2017 ad una partita di baseball.

Un altro possibile candidato è Jim Jordan dell’Ohio, che fa parte (lo ha anche presieduto) del cosiddetto Freedom Caucus, il gruppo che include Matt Gaetz e altri ribelli anti-McCarthy. Chiunque voglia essere leader dovrà venire a patti con questa esigua ma ingovernabile fronda del partito.

Il deputato della Florida Matt Gaetz, che ha guidato il drappello di ribelli che hanno portato alla destituzione dello speaker, afferma di essere sicuro «sulla base delle sue conversazioni con Trump» di aver fatto la cosa giusta.

Una dichiarazione un po’ vaga, che sembra suggerire l’endorsement dell’ex presidente per la destituzione.

Ma in realtà Trump, che a gennaio aveva telefonato ad alcuni deputati per spingerli a votare per McCarthy, stavolta non si è schierato.

Gaetz è un fedelissimo dell’ex presidente, ma lo sono pure deputate come Marjorie Taylor Greene e Lauren Boehbert che invece non hanno votato per la rimozione dello speaker.

Trump, che ha passato in settimana una nuova giornata in tribunale a New York ed è stato ammonito per le intimidazioni allo staff del giudice, ha scritto sui social: «Non capisco perché i repubblicani litighino sempre tra loro anziché prendere di mira la sinistra radicale democratica».

La crisi energetica di Cuba

Prosegue la crisi economica ed energetica a Cuba, crisi acuita negli ultimi anni per vari motivi politici, ma anche per la pandemia che ha bloccato per oltre due anni il turismo, una delle fonti di reddito principali dell’isola.

Negli ultimi tempi, a causa dei ben noti problemi politici che hanno investito le nazioni che le fornivano petrolio, Russia e Venezuela, si è aggravato il problema energetico con ripercussioni sia sulla vita di tutti i giorni che sul settore economico.

In questo momento scarseggia anche il carburante nel settore agricolo, cosa che mette a rischio la semina in un settore economico fondamentale,

Secondo il governo, che continua ancora ad incolpare il “bloqueo” statunitense, si tratta di un problema congiunturale.

Il ministro per l’energia ha negato ogni analogia con il grave periodo sofferto da Cuba nei primi anni ‘90, seguente al disgregamento dell’Unione Sovietica che costituiva una fonte consistente di rifornimento di prodotti ed energia.

Ma nell’isola nessuno crede più a queste parole di circostanza perché sono decenni che la gente fa fatica anche a soddisfare le esigenze primarie e il malcontento sale sempre di più, con conseguente aumento dei controlli e delle limitazioni di libertà.

Il libro della settimana (perché noi i libri li leggiamo, Ministro)

L’era del lavoro libero, di Francesco Delzio.

C’è una straordinaria rivoluzione in corso nel mondo del lavoro, di cui pochi finora hanno colto la reale portata.

L’affermazione dello smart working e dei nuovi modelli di lavoro ibrido, l’incredibile ondata della great resignation, i nuovi equilibri tra occupazione e vita privata invocati dalla Generazione Zeta e ricercati anche dalle generazioni più mature, le nuove strategie di engagement e valorizzazione dei dipendenti nel segno della sostenibilità perseguite da grandi e medie aziende, segnano una svolta epocale che manda definitivamente in soffitta il modello fordista, ridisegnando le modalità di lavoro e il valore stesso dell’occupazione.

Sullo sfondo infine la possibilità di realizzare un’economia della partecipazione, che offra ai lavoratori la possibilità di un coinvolgimento molto più profondo rispetto ai destini della propria azienda. Fenomeni così diversi tra loro hanno un punto in comune.

È la progressiva “liberazione” del lavoro da gran parte dei vincoli, delle barriere, dei pesi economici e sociali che lo hanno caratterizzato a partire dalla Rivoluzione Industriale.

Non è un sogno ad occhi aperti: è un trend che diventerà sempre più visibile nei prossimi anni, assecondando la nuova coscienza del lavoro che si sta formando a partire dalle generazioni più giovani.

Stiamo entrando nell’era del Lavoro Libero. In questo nuovo paradigma, l’occupazione non ha più un luogo di lavoro fisico esclusivo ma vive di connessioni. Non ha più un datore di lavoro per tutta la vita, ma è fluida e flessibile come le nostre vite.

Non è più in netta contrapposizione con la cura della famiglia e la gestione del tempo libero, perché questi aspetti stanno diventando parte integrante della qualità del lavoro stesso e della sua produttività.

Non è più dominata, infine, dalla guerra tra profitto e salario, perché imprenditori e collaboratori sono sempre più protagonisti di un progetto comune.

Il futuro del lavoro è già presente tra di noi. Siamo pronti a questa rivoluzione?

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