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Newsletter Libdem n. 31 – 14/10/2023

Palestinesi intrappolati dagli arabi

Dopo la seconda guerra mondiale gli inglesi lasciarono il mandato sulla Palestina, travolti dalle rivolte arabe, dagli scontri continui e dai tentativi di immigrazione disperata degli ebrei sopravvissuti alle camere a gas.

Demandarono quindi la questione alle neonate Nazioni Unite, che il 29 novembre 1947 approvarono la risoluzione 181 che divideva la Palestina storica in tre parti: lo Stato ebraico, quello palestinese e una zona ad amministrazione internazionale posta fra Gerusalemme e Betlemme.

Quella risoluzione, anziché sancire la pace, costituì la premessa della guerra.

Quando, in forza della risoluzione, Israele si proclamò come stato indipendente, gli eserciti arabi invasero la Palestina storica da ogni lato, accerchiando la nuova entità ebraica. La guerra così innescata terminò solo il 25 gennaio 1949, con una chiara vittoria di Israele, che si ritrovò con una maggiore quantità di territori rispetto a quelli previsti dalla stessa risoluzione 181.

I palestinesi intrappolati, così, dagli stessi arabi.

Nel 1967 il presidente egiziano Nasser decise di accerchiare Israele rimilitarizzando la penisola del Sinai. Altri paesi arabi fecero convergere le proprie truppe ai confini con Israele, ma l’allora comandante Yitzhak Rabin decise di attaccare per primo di sorpresa, annientando l’aviazione egiziana prima ancora che potesse spiccare il volo.

In sei giorni le truppe israeliane conquistarono la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, la parte orientale di Gerusalemme e le alture del Golan.

Di nuovo, i palestinesi incastrati dalla volontà degli arabi di annientare lo stato ebraico.

Poche settimane dopo la conclusione della guerra dei sei giorni, il governo israeliano elaborò un piano di pace che puntava a mantenere confini difendibili, soddisfacendo, compatibilmente con questi obiettivi, le aspirazioni dei palestinesi.

Successivamente alla guerra dei sei giorni l’ONU adottò anche la risoluzione 242/1967, con la quale si sancì il principio “territori in cambio di pace”. Dove per “pace” si intendeva il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere da parte di tutti gli stati arabi confinanti.

Riconoscimento che non arrivò mai. Ed infatti, nel 1973 gli eserciti arabi tentarono senza successo l’ultimo grande attacco. Israele si difese e vinse pure la c.d. guerra del Kippur.

Lo scoppio della prima Intifada nel 1987, la svolta di Arafat in favore di una soluzione pacifica e la sconfitta di Sadam Hussein nella prima guerra de Golfo resero più facile il percorso verso la pace all’inizio degli anni ’90.

Il processo di pace sembrò avere una svolta nel 1999, con la vittoria del laburista Barak. Nel 2000 le parti ci andarono vicinissime a Camp David, sotto l’egida dell’amministrazione di Bill Clinton.

Lo scoppio della seconda intifada arrestò il processo, che avrebbe preso una piega diversa con il ritiro unilaterale di Israele da Gaza nel 2005 e la vittoria di Hamas alle elezioni nel 2006.

Israele ha sempre vissuto circondata da nemici che vogliono annientarla. Quello che è stata costretta ad imparare è stato costruire bunker, difendersi e tenere lontano il conflitto con l’edificazione di muri e l’allargamento del proprio territorio.

Troppi attori del mondo arabo circostante non hanno mai voluto due stati ed hanno sfruttato la questione palestinese per tenere acceso un fronte verso l’Occidente.

Hamas (e i suoi alleati e sostenitori palesi e occulti) non mirano alla creazione di uno Stato palestinese, ma alla distruzione dello Stato ebraico.

Il superamento del limite compiuto da Hamas rivela l’intenzione di immolarsi (e far immolare la popolazione civile) pur di distruggere lo stato israeliano.

La causa palestinese è entrata in coma il 7 ottobre 2023. Le colpe sono molteplici. L’amministrazione Nethaniau non ne va esente.

Ma con chi dovrebbe parlare di pace oggi, Israele?

Diciotto (più uno) motivi per stare con Israele

Ieri, in un articolo leggibile per tutti, Pierluigi Battista su Huffington Post ci ha ricordato quali sono le ragioni per cui dobbiamo stare con Israele.

1) La soluzione “due popoli, due Stati” era esattamente quella proposta e prevista nel piano di spartizione sancito da un voto delle Nazioni Unite nel 1947, che tracciava i confini dei rispettivi Stati: quello di Israele (ancora sotto mandato britannico) e quello palestinese, che pure non era mai esistito come entità statale autonoma all’interno dell’ex Impero ottomano.

2) Gli israeliani accettarono il piano, i Paesi arabi no, e infatti nel ’48 scatenarono la guerra contro l’“entità sionista” e convinsero i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi, certi che sarebbero rientrati in poco tempo con la sicura scomparsa dello Stato d’Israele.

3) Gli ebrei non avevano dimenticato che negli anni della Shoah il Gran Muftì di Gerusalemme propose un’alleanza con Adolf Hitler per mettere una volta per tutte fine alla presenza ebraica (pre-statuale) in terra musulmana.

4) Israele vinse la guerra contro gli Stati arabi, ma dal ’48 al ’67 gli Stati arabi non aiutarono la nascita di un nuovo Stato palestinese nei territori assegnati dall’Onu, lasciarono la popolazione evacuata nei campi profughi, e li trattarono addirittura come presenze moleste.

5) Durante la guerra che in Israele chiamano legittimamente “guerra d’indipendenza” il nuovo esercito israeliano, formato da chi aveva vissuto i pogrom antiebraici negli anni Trenta promossi dagli arabi e dai sopravvissuti della Shoah come lo scrittore Aharon Appelfeld, non sempre ebbe una condotta ispirata ai princìpi dell’umanità, a cominciare dalla strage del villaggio di Deir Yassin in cui morirono circa 250 civili palestinesi.

6) La storia dei crimini compiuti dagli israeliani nella guerra del ’48 è trattata nei libri di storia che occupano gli scaffali nelle librerie di Tel Aviv e di Gerusalemme, dove è ospitato ogni genere di testi, anche quelli più veementemente critici contro il sionismo. Nelle librerie palestinesi, invece, non si trova niente e anche in quelle dei Paesi islamici non si trova niente, perché lì la libera storiografia non esiste. Perché lì la libertà non esiste proprio.

7) Nello Stato di Israele si riconoscono gli errori, sottoposti a un duro esame nell’opinione pubblica. Dopo il massacro dei campi palestinesi di Sabra e Chatila nel 1982 compiuto dai cristiani maroniti libanesi sotto gli occhi delle truppe israeliane di Ariel Sharon, le piazze di Tel Aviv e di Gerusalemme si riempirono di grandi manifestazioni. Fu istituita una commissione d’inchiesta che stabilì in modo circostanziato colpe e omissioni di Sharon. Il quale fu costretto a dimettersi insieme ai vertici dell’esercito di cui fu appurata la responsabilità.

8) Niente del genere accadde in Siria, complice nel 1976 della strage nel campo palestinese di Tel al-Zaatar, quando i criminali di Damasco rimasero impuniti. Anche nella Giordania hashemita nel 1970 le forze armate di re Hussein (appena sfuggito a un attentato) scatenarono un’offensiva armata nei campi profughi provocando la morte di migliaia e migliaia di civili palestinesi, donne e bambini. Era il famoso “Settembre nero”. Nessuno pagò per quel crimine.

9) La rivendicazione armata di uno Stato palestinese si rinfocolò nel ‘67, quando gli israeliani vinsero la guerra dei Sei giorni scatenata e persa dai Paesi arabi, con l’ingresso in primo piano dell’Olp di Yasser Arafat nel cui statuto era espressamente indicata la cancellazione di Israele dalle carte geografiche. Si invocava la liberazione dei territori occupati da Israele, che però non erano riusciti a formarsi come Stato palestinese dal ’48 al ’67, quando non erano “occupati”. Come mai?

10) Circa 700.000 palestinesi furono scacciati dalla loro terra nel ’48. Storia nota. Storia molto meno nota: oltre 600.000 ebrei furono costretti a fuggire dai Paesi arabi e a rifugiarsi in Israele, cacciati dal Marocco, dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia, dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Siria, dallo Yemen, senza contare i quasi 100 mila ebrei falasha in fuga dall’Etiopia negli anni Ottanta.

11) Israele non è “guerrafondaio”. Fa la pace con chi vuole fare pace con Israele. Non fa la pace con chi programmaticamente vuole distruggerlo e cancellarlo, negando il suo stesso diritto di formarsi come Stato. Per onorare gli accordi di pace con l’Egitto, nel 1982 il governo israeliano evacuò con la forza e tra le drammatiche proteste 18 insediamenti ebraici nella penisola del Sinai occupata durante la guerra del 1967.

12) Nel 2005 il governo di Sharon smantellò a Gaza 21 insediamenti ebraici tra pianti, sommosse, resistenza passiva dei civili che si barricavano in casa e indossavano platealmente la stella gialla della persecuzione. Furono giorni durissimi per Israele, ma dal 2005 tecnicamente Gaza non è più “territorio occupato”, etnicamente ripulito di qualsivoglia presenza ebraica. Questo per chi aspira a comunità statali multietniche e multiculturali.

13) Dal 2005 Gaza è diventata una grande prigione a cielo aperto. In tutto questo tempo la dirigenza di Hamas non ha speso un soldo per il benessere e lo sviluppo civile ed economico della popolazione palestinese, ma ha dirottato ogni risorsa per le armi con cui distruggere lo Stato di Israele.

14) Hamas ha instaurato a Gaza uno spaventoso regime di terrore e di oppressione. La popolazione ridotta alla fame. I dissidenti assassinati. Le donne schiacciate e umiliate. Gli omosessuali costretti a fuggire nell’odiata Israele per non farsi malmenare e uccidere dagli aguzzini.

15) A Gaza Hamas ha vietato la pubblicazione di brani tratti dal Diario di Anna Frank per non diffondere “l’infezione della menzogna sionista”. In tv vanno in onda prediche così: “Il mio spirito si elevò quando un giovane mi disse: ‘Oh sheikh, ho quattordici anni, ancora quattro anni e poi mi farò saltare tra gli ebrei!’. Gli dissi: ‘Oh ragazzo, che Allah ti faccia meritare il martirio”.

16) A proposito. Nel 1985 i dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro spararono in testa a un signore sulla sedia a rotelle che si chiamava Leon Klinghoffer e lo gettarono in mare: era ebreo. Nel 2022 in Pakistan i rapitori di Daniel Pearl, prima della rituale decapitazione, gli fecero dire in un video: “Mio padre è ebreo; mia madre è ebrea, io sono ebreo. Provengo da una famiglia di sionisti”. Non si vede il nesso con la questione palestinese. Si vede il nesso con l’odio antiebraico.

17) Dicono che gli arabi israeliani vivano in una condizione di apartheid, potenziali vittime addirittura di un “genocidio”. Ma i loro rappresentanti siedono nel Parlamento di Israele e a un certo punto gli arabi hanno partecipato a un governo nazionale. Apartheid? Genocidio?

18) Israele fa la pace con chi vuole fare pace con Israele. I negoziati di Camp David del 2000 erano arrivati a un passo da una pace storica tra Israele e i palestinesi di Arafat (“due popoli, due Stati”). Nel pacchetto che doveva essere approvato Israele avrebbe dovuto ritirarsi in modo definitivo dall’85 per cento della Cisgiordania (e poi addirittura dal 95) e dal 100 per cento della Striscia di Gaza. Si prevedeva l’abbandono degli insediamenti ebraici della discordia. Si affrontava persino la questione di Gerusalemme e si rendeva possibile un ritorno limitato e contingentato dei profughi palestinesi o, in alternativa, un risarcimento. Mancava pochissimo. Un soffio. Ma Arafat all’ultimo gettò tutto in aria. La pace venne sepolta. Cominciò l’“intifada dei martiri” che fece migliaia e migliaia di vittime.

19) Poi, di nuovo l’abisso.

Le colpe dell’Occidente

Magistrale, in settimana, Giuliano Ferrara su Il Foglio.

“Negli ultimi due decenni è diventato di moda prendersela con l’egemonia americana, parlare derisoriamente dell’eccezionalismo americano, ridicolizzare la funzione autoproclamata dall’America di ‘polizia mondiale’ e aspirare a un mondo multipolare. Bene, congratulazioni: ora quel mondo ce l’abbiamo. Dite voi se è migliore dell’altro”.

Sono parole di Noah Smith, da un testo di Substack, citate finalmente anche sul New York Times da un analista, David Leonhardt, di parte liberal.

Quello che Ferrara chiama Demente Collettivo, è convinto che la colpa sia degli americani, dei neoliberisti, del capitalismo, della globalizzazione dei mercati, del passato coloniale europeo, dell’imperialismo americano (mai esistito), della guerra in Iraq o in Afghanistan, della risposta all’11 settembre che ora torna in forme nuove, e naturalmente del sionismo, dei governi israeliani, dell’occupazione e dell’estremismo parolaio dei sostenitori della colonizzazione in Cisgiordania, la colpa è di tutto e di tutti tranne che dell’Occidente, che ha rinunciato all’unica logica possibile, quella di riscrivere nel segno della democrazia e della libertà, del nation building contro il dilagare degli stati canaglia, la mappa mondiale.

Israele e Ucraina ultimi argini della democrazia occidentale

Come ha scritto in settimana su L’Opinione Valter Vecellio, in queste ore drammatiche è necessario ricordare che Israele si è completamente disimpegnata da Gaza nel 2005; che, da giorni, affronta una offensiva senza precedenti: i terroristi di Hamas stanno sparando migliaia di razzi e missili mortali contro la popolazione israeliana; come i nazisti hanno ucciso e uccidono ebrei solo e unicamente perché tali; non si può e non si deve chiedere a Israele di assistere inerme e inerte al massacro dei suoi figli.

Per questo Israele si deve difendere e va difesa.

Si tratta del baluardo dei nostri valori: democrazia, diritto, libertà.

“La libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”, così diceva Ugo La Malfa.

Israele e Ucraina sono i fronti ove è in gioco la democrazia dell’Occidente tutto.

È giusto vietare le manifestazioni pro Palestina?

In paesi come la Francia, oggi, manifestazioni del genere, creerebbero anzitutto dei problemi di ordine pubblico. È terribile da dire, ma è un fatto. Un fatto che impone forse di ripensare anche l’atteggiamento dell’Occidente verso il supporto che le teocrazie del Golfo assicurano alle comunità islamiche in Europa.

Troppi soldi dal Qatar affluiscono in Occidente per finanziare moschee ove molti predicatori sono tutt’altro che benevoli verso le comunità che stanno loro intorno.

La democrazia è un regime, né più, né meno. E come tutti i regimi deve garantirsi la sopravvivenza, non potendo tollerare chi si adoperi per la sua distruzione o il suo superamento.

Con un aiuto da Popper e le sue riflessioni sulla società aperta per evitare il paradosso della libertà e quello della tolleranza: intolleranti con gli intolleranti.

Un intervento del nostro vicesegretario Bepi Pezzuli

Le immagini strazianti di civili inermi assassinati, bambini neonati decapitati, uomini e donne bruciati vivi, cadaveri dissacrati dovevano rimanere una testimonianza della Shoah, foto ingiallite di eventi occorsi in Europa 80 anni fa e che non si sarebbero dovuti verificare mai più. Mai più.

Invece, l’odio antisemita è esploso di nuovo, in Israele in questi giorni, in queste ore. Barbarie e atrocità indicibili perpetrate non dai nazisti tedeschi, ma dai terroristi palestinesi di Hamas. Quanto sta accadendo infligge un duro colpo al sogno Sionista, esibendo in diretta planetaria il fallimento dello Stato ebraico nel compiere il suo dovere più sacro, la ragione per la sua esistenza: proteggere gli ebrei, affinché il genocidio non potesse essere compiuto mai più. Mai più.

Amir Levy ha spiegato con parole toccanti l’eccezionalismo israeliano. “Sopravvissuti all’olocausto nazista in Europa, così come ebrei provenienti da altre parti del mondo, continuarono a migrare in Israele, nonostante le difficoltà, le restrizioni e i pericoli, e non smisero mai di affermare il loro diritto a una vita di dignità, libertà e onesto lavoro nella loro patria nazionale”.

Queste parole, tratte dalla Dichiarazione di Indipendenza di Israele, sono un ricordo vitale che la premessa fondamentale dello Stato ebraico, specialmente in seguito all’Olocausto, non era necessariamente la democrazia, il liberalismo, l’uguaglianza o persino la libertà – tutti valori importanti, il cui mantenimento ha, negli ultimi sei mesi, lacerato la società israeliana dall’interno.

Piuttosto, lo Stato ebraico era stato fondato innanzitutto per garantire la vita degli ebrei; solo dopo aver garantito questo, poteva essere intrapreso lo sviluppo più ampio e la coltivazione delle varie norme, ideali e istituzioni che danno scopo e significato alla vita. Questo è il significato dell’eccezionalismo ebraico.

Le Forze di Difesa di Israele (IDF) sono da sempre il cardine della società israeliana. I leader politici di Israele hanno indossato l’uniforme, pagando il servizio militare col sangue. Come Netanyahu stesso, che ha perso il fratello Yoni a Entebbe.

Le IDF sono sempre state il potere; sia militarmente, combattendo e difendendo Israele e i suoi cittadini; che simbolicamente, rappresentando la nuova forza ebraica (ad esempio, durante il sorvolo dei caccia israeliani sopra Auschwitz-Birkenau nel 2003). Questa legittimazione deriva dalla promessa che ogni soldato israeliano presta al suo popolo: gli ebrei non saranno aggrediti mai più. Mai più.

Finita la guerra, gli ebrei chiederanno conto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu e al suo governo intossicato dai Kahanisti perché abbiano miseramente fallito nel compiere il loro dovere più fondamentale: proteggere gli ebrei. Ma ora occorre serrare i ranghi: Israele appare sull’orlo di una guerra regionale inevitabile. Non solo con Hamas a Gaza, ma anche con Hitzbullah in Libano e forse, in uno scontro frontale con il regime degli Ayatollah in Iran.

L’attacco mortale di Hamas da Gaza di sabato scorso è stato variamente definito l’”11 settembre” di Israele, la “Pearl Harbor” ebraica. Ma questo, purtroppo, è qualcosa che sconvolge la psicologia ebraica: la sensazione di poter essere aggrediti anche nella propria terra. Da sabato, è calata la notte sul porto sicuro.

La tremenda domanda che non vogliamo farci

Non possiamo dire di non sentire vicinanza con le parole di Emma Bonino: la popolazione civile di Gaza non è tutta fatta di terroristi e fiancheggiatori e togliere luce e acqua è tremendo e probabilmente ai confini del diritto internazionale.

Non siamo guerrafondai e vorremmo la pace più di chiunque altro. Non riconosciamo la legittimità di sentimenti di vendetta e non abbiamo mai fatto il tifo per l’amministrazione Nethaniau.

Abbiamo, anzi, avversato apertamente il suo tentativo di indebolire lo stato di diritto con la riforma della giustizia che vorrebbe scavalcare la Corte suprema. E ci disgustano certi estremisti al governo come Ben-Gvir.

La domanda delle domande oggi però è solo una. Una domanda che nessuno di noi vorrebbe farsi. Se Hamas continuerà a lanciare missili da Gaza, come altrimenti dovrebbe difendersi Israele?

Il libro della settimana (perché noi i libri li leggiamo, Ministro)

Il sabba intorno a Israele. Fenomenologia di una demonizzazione. Di Niriam Ferretti

Nessuno stato moderno ha subito per cinquant’anni un ininterrotto processo nei suoi confronti come Israele. In seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, e alla clamorosa vittoria israeliana contro gli eserciti guidati da Nasser, Israele ha iniziato a essere presentato all’opinione pubblica mondiale come uno stato canaglia, responsabile di misfatti e abusi ai danni degli arabi palestinesi assurti al ruolo di vittime e di «resistenti».

Questa narrativa fondata su menzogne, distorsioni e omissioni è servita a costruire un vero e proprio romanzo criminale in cui è confluito inesorabilmente tutto il materiale nero sugli ebrei formatosi nell’arco di millenni.

In tal modo, la micidiale macchina del fango messa in moto alla fine degli anni ’60 dagli stati arabi perdenti con la complicità dell’Unione Sovietica ha risarcito i vinti sul campo di battaglia, concedendo loro uno straordinario successo sul piano della propaganda.

La marchiatura a fuoco di Israele, la sua demonizzazione attraverso l’uso di parole stigmatizzanti come «colonialista», «razzista», «genocida», «nazista», è oggi diventata una terribile banalità. Quella stessa banalità semantica dileggiante e patibolare che negli anni ’30 e poi ’40 veniva adoperata in Europa prima che si passasse allo sterminio organizzato.

Oggi, l’antisemitismo si ricicla con la maschera presentabile dell’antisionismo, in voga tanto nelle manifestazioni di piazza dove si inneggia alla distruzione di Israele, quanto nei salotti «colti» e in ambito accademico e mediatico.

Si tratta di degradare in effigie ciò che non si può distruggere materialmente, vera e propria propedeutica per l’omicidio che si spera di tornare un giorno a commettere mentre il mondo assiste indifferente.

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