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Newsletter Libdem n. 32 – 21/10/2023

Vediamoci a fine novembre

Stiamo organizzando un incontro aperto a tutti gli iscritti per confrontarci tutti assieme sulle sfide che ci aspettano, sulle prossime elezioni europee, sul nostro futuro.

Si terrà a Milano, di sabato, a fine novembre.

Ciascuno potrà parlare e dire la sua. La prossima settimana vi riveleremo tutti i dettagli e vi manderemo il link per iscriversi.

Joe Biden: perché gli USA e l’Occidente devono difendere l’Ucraina e Israele – la voglia di riscatto dell’internazionalismo liberale

Joe Biden ha parlato alla nazione pronunciando un discorso molto significativo, che segna la voglia di riscatto dell’internazionalismo liberale.

«Il gruppo terroristico Hamas ha scatenato il male puro e semplice nel mondo. Ma purtroppo il popolo ebraico sa, forse meglio di chiunque altro, che non c’è limite alla depravazione delle persone quando si vuole infliggere dolore agli altri.

In Israele ho visto un popolo forte, determinato, resistente, ma anche arrabbiato, sotto shock e profondamente addolorato.

(…)

L’attacco ad Israele fa eco a quasi 20 mesi di guerra, tragedie e brutalità inflitte al popolo ucraino — popolo che è stato gravemente ferito da quando Putin ha lanciato la sua invasione su larga scala.

(…)

Non abbiamo dimenticato le fosse comuni, i corpi ritrovati con segni di tortura, gli stupri usati come arma di guerra dai russi e le migliaia e migliaia di bambini ucraini portati con la forza in Russia, sottratti ai loro genitori. È tutto disgustoso.

(…)

Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono annientare completamente una democrazia vicina — annientarla completamente.

Hamas ha come suo scopo dichiarato di esistere la distruzione dello Stato di Israele e l’uccisione del popolo ebraico.

Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Hamas usa i civili palestinesi come scudi umani e le famiglie palestinesi innocenti soffrono molto a causa loro.

Nel frattempo, Putin nega che l’Ucraina sia o sia mai stata un vero Stato. Sostiene che l’Unione Sovietica ha creato l’Ucraina.

E solo due settimane fa ha detto al mondo che se gli Stati Uniti e i nostri alleati ritirassero — e se gli Stati Uniti lo facessero, lo farebbero anche i nostri alleati — il proprio sostegno militare all’Ucraina, a Kyiv rimarrebbe, cito, “una settimana di vita”. Ma non ci stiamo ritirando.

Permettetemi quindi di spiegarvi perché assicurarsi che Israele e l’Ucraina abbiano successo è vitale per la sicurezza nazionale americana.

La storia ci ha insegnato che quando i terroristi non pagano un prezzo per il loro terrore, quando i dittatori non pagano un prezzo per la loro aggressione, causeranno ancora più caos, morte e distruzione.

Continueranno ad andare avanti, ed il costo e le minacce per l’America e per il mondo continueranno ad aumentare nel tempo.

Quindi, se non fermiamo l’appetito di Putin per il potere e il controllo in Ucraina, non si limiterà solo all’Ucraina. Putin ha già minacciato di “ricordare”, cito, “ricordare” alla Polonia che il loro territorio occidentale è stato un dono della Russia.

(…)

Di là dell’Europa, sappiamo che i nostri alleati e, forse soprattutto, i nostri avversari e concorrenti ci osservano. Stanno osservando anche la nostra risposta in Ucraina.

Se ci allontaniamo e lasciamo che Putin cancelli l’indipendenza dell’Ucraina, i potenziali aggressori in tutto il mondo saranno incoraggiati a fare lo stesso.

Il rischio di conflitti e caos potrebbe diffondersi in altre parti del mondo, nell’Indo-Pacifico ed in Medio Oriente, anzi soprattutto in Medio Oriente.

L’Iran sostiene la Russia in Ucraina e sostiene Hamas ed altri gruppi terroristici nella regione. E continueremo a ritenerli responsabili di questo, aggiungerei.

Gli Stati Uniti e i nostri partner in tutta la regione stanno lavorando per costruire un futuro migliore per il Medio Oriente, un futuro in cui il Medio Oriente sia più stabile, meglio collegato ai suoi vicini.

Mercati più prevedibili, più occupazione, meno rabbia, meno lamentele, meno guerre se connessi. Ne beneficia la gente comune, ne beneficia la gente del Medio Oriente e ne beneficiamo noi.

La leadership americana è ciò che tiene insieme il mondo. Le alleanze americane sono ciò che mantiene noi, l’America, al sicuro. I valori americani ci rendono un partner con cui le altre nazioni vogliono lavorare.

Mettere a rischio tutto questo se ci allontaniamo dall’Ucraina, se voltiamo le spalle a Israele, non ne vale la pena.

Ecco perché domani invierò al Congresso una richiesta di bilancio urgente per finanziare le esigenze di sicurezza nazionale dell’America, e per sostenere i nostri partner più critici, compresi Israele e l’Ucraina».

Ricostruire una forte deterrenza contri i paesi arabi ostili 

In settimana, su Il Foglio, David Carretta ha riportato le parole l’ambasciatore di Israele presso l’Unione europea, Haim Regev: “il 7 ottobre 2023 è stato il giorno più nero nella storia ebraica dall’Olocausto”, l’attacco di Hamas “non fa parte di un conflitto politico. Sono venuti solo per uccidere ebrei in un’operazione di assassinio di massa. Dobbiamo fare in modo che non accada più”.

Sradicare Hamas sarà “una missione molto complicata”, ha riconosciuto l’ambasciatore, aggiungendo che “Nel 1945 l’unico modo per eliminare i nazisti fu andare fino a Berlino”.

L’espressione “andare fino a Berlino” mostra fino a che punto il 7 ottobre ha cambiato l’approccio strategico di Israele degli ultimi anni. Non può più trattarsi di “contenimento”.

La minaccia ha cambiato totalmente dimensione. Il patto fondante dello stato ebraico, la promessa di Israele quale luogo sicuro per tutti gli ebrei del mondo, è stato rotto.

La capacità di deterrenza nei confronti dei paesi e degli attori ostili che lo circondano è andata in frantumi e va ricostruita.

Cosa vuole Hamas: Palestina senza Israele

Mentre la guerra a Gaza andava intensificandosi, l’Autorità Palestinese è stata piuttosto silenziosa.

Dalla sua istituzione nel 1993, e in particolare dalla Seconda Intifada, all’inizio degli anni 2000, l’Autorità palestinese ha perso credibilità non solo a livello diplomatico, ma anche tra il popolo palestinese.

Hamas si è precipitata a riempire il conseguente vuoto di idee, politica e sicurezza e oggi il popolo palestinese ne sta pagando il prezzo.

Qualsiasi accordo politico raggiunto dopo la guerra a Gaza deve concentrarsi non solo sul futuro della striscia costiera, ma anche sulla riabilitazione dell’Autorità palestinese.

Dalla firma degli accordi di Oslo nel 1993, al popolo palestinese sono state presentate due visioni del loro futuro, in competizione tra loro e inconciliabili.

Una, proposta dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – un gruppo laico, anche se per nulla democratico, e genitore dell’Autorità Palestinese – prevedeva un processo diplomatico che portasse a uno Stato palestinese fianco a fianco con Israele.

L’altro, promosso da Hamas, un gruppo terroristico designato e membro della più ampia rete dei Fratelli Musulmani, chiedeva la creazione di uno Stato palestinese dal fiume Giordano al Mediterraneo – in altre parole, la distruzione di Israele – da raggiungere con la violenza.

Diplomazia, terrore, governance, associazioni di beneficenza, organizzazione politica, messaggistica: gli oppositori hanno usato tutti gli strumenti a loro disposizione per portare avanti i loro obiettivi sia sul terreno che nei cuori e nelle menti dei palestinesi.

Gli aiuti alla Palestina negli anni

Era il 1993, il prato quello della Casa Bianca, la stretta di mano storica: quella tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat “benedetta” da Bill Clinton.

Nacque allora l’Autorità Nazionale Palestinese con l’obiettivo di creare un organismo politico capace di amministrare temporaneamente i territori di Gaza e della Cisgiordania e collaborare alla lotta al terrorismo al fine di creare le condizioni favorevoli alla nascita di uno Stato palestinese indipendente.

Secondo i dati dell’Ocse, gli aiuti ai palestinesi ammontano a 40 miliardi di dollari erogati nel periodo che va tra il 1994 al 2020. Soldi per infrastrutture, sicurezza idrica, istruzione, sanità.

La maggior parte degli aiuti, quasi il 72%, proviene da dieci donatori. In testa c’è l’Unione Europea che ha contribuito per il 18,9% sul totale dei fondi erogati, seguita dagli Stati Uniti.

Questi soldi hanno anche finanziato Hamas?

La questione, tornata a ribollire in questi giorni, è stata più volte oggetto di inchieste da parte della Commissione Europea che, tuttavia, non ha mai appurato con certezza se una parte dei fondi finisse nelle mani dei terroristi.

Quello che è sicuro, invece, è che una parte dei fondi veniva “sprecata, sperperata o persa nella corruzione” come afferma un rapporto della Corte dei Conti Europea del 2013.

La lettera di un lettore a L’Unità

Al direttore, per Israele il garantismo non vale. L’Unità ieri ha titolato in prima pagina: “Israele rade al suolo un ospedale: centinaia di morti”. Nella serata di martedì, Hamas annunciava che un ospedale era stato colpito, forniva immediatamente la cifra di 500 morti e incolpava Israele.

L’Unità ha evidentemente preso per buona questa comunicazione e l’ha sparata in prima pagina. Peccato che, nella stessa serata, il portavoce dell’esercito israeliano rendesse noto che l’ospedale non fosse un obiettivo militare per Israele e che l’esercito con la stella di Davide non lo avesse colpito.

Col passare del tempo emergevano filmati che fornivano elementi importanti per mettere in dubbio la versione di Hamas.

Uno di questi era preso addirittura da Al Jazeera, l’emittente televisiva del Qatar, paese finanziatore di Hamas, non certo una fonte vicina a Israele. Politici israeliani di destra e di sinistra hanno tutti respinto l’accusa, persino il presidente di Israele, Isaac Herzog, solitamente silenzioso, ha detto in modo inequivocabile che tale esplosione non fosse attribuibile a Gerusalemme.

Come hanno potuto sostenere questa tesi con così grande fermezza? Periti israeliani hanno valutato i video, verificato le attività militari nella zona e cercato di ricostruire la vicenda e sostengono che un missile difettoso della Jihad islamica abbia colpito l’edificio.

Giornalisti anche italiani, inviati di guerra con grande esperienza al fronte, hanno detto apertamente sui social che il suono fosse chiaramente quello di un missile (palestinese) e non quello di una bomba (israeliana).

Ma, si chiederanno i lettori, i palestinesi si sparano da soli? Ebbene, le statistiche dicono che fino a un quinto dei missili lanciati dalla Jihad finisca per errore dentro Gaza.

Ieri mattina è poi emerso un audio captato tra le cellule della Jihad dove si dice chiaramente di un missile difettoso, sparato da un cimitero, che avrebbe colpito l’ospedale.

Tutta questa ricostruzione era forse sfuggita ai redattori dell’Unità? Quali riflessi consentono di ritenere credibile la versione di un regime di fondamentalisti e nulla quella fornita da un paese democratico? Quale danno viene inferto allo Stato ebraico, quanto odio viene sollecitato verso Israele attribuendole tali nefandezze?

Elezioni in Polonia

“Le elezioni sono state competitive ma un uso improprio delle risorse pubbliche e la copertura distorta e apertamente schierata da parte dell’emittente pubblica ha fornito un chiaro vantaggio al partito al potere”. È quanto dichiarano gli osservatori internazionali inviati in Polonia per monitorare il voto dello scorso week end.

La missione comprendeva 154 osservatori provenienti da 44 paesi, di cui 33 esperti e osservatori a lungo termine inviati dall’Odihr, 94 parlamentari e personale dell’assemblea parlamentare dell’Osce e 27 dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

“Sebbene le libertà di associazione e di riunione siano state rispettate in una campagna pluralistica, essa è stata inficiata dall’uso improprio delle risorse statali”, dicono gli osservatori.

“La sovrapposizione tra i messaggi della campagna elettorale del partito al potere e le campagne di informazione del governo, nonché delle aziende controllate dallo Stato e delle loro fondazioni, anche per quanto riguarda il referendum, ha dato un ulteriore vantaggio significativo al partito al potere”, hanno specificato.

La Polonia ha evitato il rischio di trasformarsi in una autocrazia perché non aveva ancora superato il punto di non ritorno. Ma chi era andata vicina.

Superato il punto di non ritorno, il ripristino può avvenire solo con una violenta rottura dell’ordine costituito.

Mai abbassare la guardia in democrazia.

Il documento programmatico di bilancio

Mentre S&P conferma l’outlook stabile per l’Italia, secondo l’analisi dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani, il Documento programmatico di bilancio (DPB) conferma le scelte della Nadef riguardo alla dinamica del debito pubblico che rimane sostanzialmente invariato in rapporto al Pil e che salirebbe se vi fossero previsioni più realistiche, in particolare riguardo alla crescita del Pil e alle privatizzazioni.

Il DPB è carente perché non dice nulla su quasi 9 miliardi di coperture nel 2024, è estremamente vago su voci importanti come la riforma delle pensioni, conferma che molte misure (cuneo contributivo, riforma Irpef, sostegni alle imprese) sono finanziate solo per un anno.

Ciò lascia un’eredità negativa agli anni prossimi e rischia di creare incertezza e di ridurre notevolmente l’efficacia delle misure sulla spesa di famiglie e imprese e dunque sull’economia.

Sostanzialmente si è rinunciato a un progetto di aggiustamento dei conti volto a imprimere un profilo discendente al rapporto debito/Pil:

–  la riduzione del rapporto debito/Pil è modestissima (-0,8 punti di Pil, dal 140,2 per cento del 2023 al 139,6 nel 2026);

– la riduzione si realizzerebbe quasi tutta nel 2026 (-0,5 punti). Nel 2024, questa è solo di 0,1 punti percentuali (dal 140,2 a 140,1). Il rinvio della riduzione del debito rende poco credibile l’intero impianto del bilancio;

– le riduzioni del debito si realizzano per effetto di alcune ipotesi che appaiono piuttosto dubbie;

– la crescita del Pil 2024-2026 (1,3 per cento in media) è data in misura più alta di quella prevista dalla maggior parte degli analisti.

Salvini alla guerra contro il terrorismo

Come ha notato Claudia Fusani ieri su Il Riformista, Matteo Salvini ha deciso di fare campagna elettorale sulla guerra scatenata da Hamas in Medioriente.

Nonostante gli allarmi bomba e la psicosi da terrore ha invitato i sui follower a scendere in piazza “contro il terrorismo islamico”, in nome “della libertà e della sicurezza”.

Da un punto di vista grammaticale non fa una piega: siamo tutti a favore della libertà e della sicurezza e contro il terrorismo islamico. Quindi, l’iniziativa avrà sicuramente seguito e otterrà consenso.

Politicamente, però, è come lanciare un fiammifero su una tanica di benzina: una manifestazione del genere, con precise insegne politiche, ha un alto tasso di strumentalizzazione e può diventare facilmente obiettivo di malintenzionati.

Per Salvini invece è la cosa giusta da fare: “Ti aspetto sabato 4 novembre a Largo Cairoli a Milano, ore 15. La Lega c’è, tacere è una colpa” è il messaggio inviato a militanti e sostenitori.

Il punto è che il resto della maggioranza non ci sta, non aderisce, anzi tace imbarazzata a cominciare dal presidente Meloni che entra ed esce da riunioni con l’intelligence e i ministri dell’Interno e della Giustizia per aggiornare lo stato di allerta e valutare nuove misure per mettere in sicurezza obbiettivi e l’infinità gamma di soft target che la jihad islamica, negli ultimi vent’anni, ha dimostrato di saper conoscere e sfruttare assai bene quando vuole colpire.

Specie se ha deciso di affidare la propria guerra alle azioni improvvise, estemporanee ed imprevedibili dei lupi solitari sparsi in Occidente e in Europa. Il professore accoltellato ad Arras, in Francia, e i due tifosi svedesi uccisi l’altra sera a Bruxelles ne sono la drammatica conferma.

Cavalcando in modo irresponsabile la solita vecchia e semplicistica equazione: immigrazione = insicurezza = terrorismo.

“Lampedusa porta dei terroristi” sono gli slogan rilanciati sui social e da alcuni talk show che mettono in fila gli stranieri arrivati a Lampedusa e che poi, anni dopo, sono stati protagonisti di attentati, da Nizza a Berlino per finire a Bruxelles l’altro giorno.

Sono sette dal 2016 a oggi, sette storie diverse, gente arrivata qua in cerca di benessere, non lo ha trovato e si è radicalizzata.

Cosa sta succedendo alla democrazia?

Massimo Gaggi, su Il Corriere della Sera, ha spiegato che per il 38% dei repubblicani è lecito opporsi con la violenza agli eccessi dei loro oppositori politici: i democratici, visti come estremisti radicali.

Da quando, dopo il voto del 2020, Donald Trump ha cominciato a parlare di elezioni rubate, per molti suoi supporter la violenza è diventata strumento politico legittimo.

La novità, oltre alla crescita dei fan della rivolta, sta nel fatto che anche i democratici sono pronti a ribellarsi, e in misura ancora maggiore (41%) agli eccessi di un regime conservatore estremista (cioè a una nuova vittoria di Trump che si è già detto deciso ad estendere i suoi poteri comprimendo l’autonomia delle istituzioni indipendenti).

Cosa sta succedendo alla democrazia? Senza una forza libdem di interposizione è destinata a degenerare.

Il libro della settimana (perché noi i libri li leggiamo, Ministro

Giovanni Spadolini: la questione ebraica e lo stato d’Israele. Di Valentino Baldacci.

“Il rapporto fra le forze politiche italiane e la causa di Israele non è mai stato semplice, specie negli anni successivi alla vittoriosa guerra dei Sei Giorni (1967).

Antichi pregiudizi e più pragmatici calcoli d’interesse hanno reso questa relazione estremamente difficoltosa, a maggior ragione quando la questione palestinese si è palesata come una fondamentale pedina del gioco di scacchi fra superpotenze.

Nella diffidenza verso Israele e nella simpatia acritica verso il panarabismo, prima, e il movimento palestinese di Arafat, poi, confluirono sentimenti e stati d’animo dalle differenti radici: tutti più o meno riconducibili a un certo anti-americanismo terzomondista che vedeva proprio nel nodo irrisolto del Medio Oriente un terreno di confronto a portata di mano.

E solo in parte questa rotta stata corretta con l’ascesa del fondamentalismo. In tale quadro la posizione coerentemente filo-ebraica è stata prerogativa per decenni di un esiguo segmento politico e culturale nel nostro Paese.

I partiti laici, in primo luogo, e fra questi il partito repubblicano di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, i radicali di Pannella, i liberali. Pochi democristiani, per la verità, e poi alcuni settori, anch’essi gravemente minoritari, della sinistra: Pietro Nenni, storicamente, e fra i comunisti Terracini, in tempi recenti Piero Fassino e non molti altri.

Per gli amici di Israele si trattava di affermare una visione politica, certo, ma soprattutto culturale: nel senso di rintracciare nel sionismo una grande causa di libertà e di emancipazione.

Nel solco della nostra vicenda risorgimentale che fu – a partire dalle Interdizioni Israelitiche di Cattaneo – il modello di riferimento per il riscatto nazionale dell’ebraismo. È stato proprio Spadolini, uno dei maggiori interpreti della linea di amicizia verso Israele, a sottolineare nei suoi studi la particolare ispirazione che Teodoro Herzl trasse dagli insegnamenti di Mazzini.

Oggi questo aspetto è messo bene in luce dal saggio che Valentino Baldacci dedica allo statista e storico fiorentino nel suo lungo nesso con la questione ebraica e lo Stato d’Israele.

Il percorso spadoliniano coincide, come si è detto, con una scelta culturale prima che politica, ma diventa presto un cammino a ostacoli tutto politico nel rifiuto di ogni opportunismo. Lo si vedrà nel caso dell’Achille Lauro e non solo. Senza Spadolini, con la sua ferma condanna delle suggestioni terroristiche assai prima dell’11 settembre, la voce dell’Italia nel Mediterraneo sarebbe stata più flebile e conformista.

II lavoro di Baldacci si vale della prefazione di Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche; di una premessa di Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia; e di un ricordo di Amedeo Mortara, cui il libro è dedicato, scritto dalla figlia Raffaella”.

(Recensione di Stefano Folli, il Sole 24 Ore Domenica, 25 agosto 2013)

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