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Patto di stabilità, che follia

Mentre scriviamo, ancora non sono noti i dettagli dell’annunciato accordo sul nuovo Patto di Stabilità europeo in materia di finanze pubbliche nazionali.
Si è capito che Germania e Francia premono per chiudere e ugualmente la Spagna, per evitare che il suo turno semestrale di presidenza UE si concluda con un clamoroso insuccesso.
Da settimane, è diventato chiaro il dettaglio della convergenza. Come è chiara la melina del governo Meloni, finché non avrà capito fino all’ultimo euro che margine di deficit e debito le resta praticabile nei prossimi 3 anni come indicati in legge di bilancio, e poi in vista delle elezioni nazionali. Tutti sono in attesa di spaccare il capello, le opposizioni pronte a dire che il governo dovrà correggere i suoi conti, la maggioranza a gonfiare le gote dicendo che allora non vota il MES. Qui invece si pensa diversamente.
I tre numeretti delle clausole di salvaguardia su cui si è trattato sono noti.
E cioè se gli iperindebitati come l’Italia debbano far scendere almeno dell’1% l’anno il proprio debito, e se debbano tagliare annualmente il proprio deficit dell’1,5% di PIL, dopo due o tre o quattro anni in cui potrebbe bastare un calo dello 0,5% annuale o anche meno, “pesando” (non si sa come) gli elevati oneri sul debito e (forse) gli investimenti in difesa. Ma questa triplice serie di numeretti è la fotografia di un errore clamoroso, una storica occasione persa, una colossale dimostrazione di miopia collettiva. Da parte di tutti i Paesi membri. A cominciare da Germania, Francia e Italia.
L’errore clamoroso è di aver ridotto un anno di confronto sul nuovo patto alla ragionieristica dei membri per bandierine, su modifiche a latere dell’impianto varato nel 1998, 25 anni fa. Las storica occasione persa è non pensare ai 25 anni che abbiamo di fronte, non a quelli alle spalle.
La miopia collettiva è aver ignorato che, per vincere le sfide mondiali aperte, all’Unione Europea serve una finanza pubblica del tutto diversa. Al COVID, l’Unione Europea seppe reagire con il varo di strumenti finanziari cooperativi, come il Next generation EU e il SURE, i cui benefici erano maggiormente rivolti a chi aveva subito colpi più gravi dai lockdown antipandemici e dal freno del commercio mondiale.
Poi questa svolta si è fermata.
Dopo la criminale azione di Putin in Ucraina non è nato un acquirente unico europeo dell’energia, né uno strumento finanziario comune volto a finanziare in maniera congrua la capacità militare dell’Ucraina e la sua successiva ricostruzione. Siamo tornati alle vie nazionali, ciascun membro a seconda della propria capacità di bilancio.
Eppure, gli ultimi due anni sono stati anche quelli di un’immensa produzione di nuove regole europee che hanno fissato nuove categorie di “beni comuni” da perseguire, a cominciare dalla doppia transizione ambientale e digitale, dalle nuove tecnologie avanzate all’indipendenza per materie prime e input di produzione necessari all’industria europea, e alla stessa difesa e sicurezza.
Dal Fit for 55 a Euro7, dal Net Zero Industrial ACT al Raw Materials ACT, dalla Carbon Border tax alla disciplina CBAM per acciaio e alluminio, fino alla direttiva PMI Due Diligence che chiede a piccole e medie imprese di diventare certificatori di sostenibilità di qualunque propria componente produttiva anche estera e dei rispettivi fornitori, la UE ha lanciato la sfida di lanciare uno standard normativo della sostenibilità per l’intero mondo, nell’indifferenza sia di quante centinaia di miliardi di investimenti tutto ciò richiederebbe, sia verso come queste migliaia di pagine di regolamentazione industriale verranno considerate da Cina, USA, e stragrande maggioranza dei BRICS (gli acordi di libero commercio UE con Australia e Mercosur sono saltati proprio per questo).
L’amara occasione non colta è che nuovo Patto di Stabilità e nuova governance europea in vista dell’allargamento a 35 membri con nuovi ingressi dall’area balcanica, dovevano essere considerati sin dall’in inizio i due nuovi pilastri per rispondere alle sfide epocali davanti a noi.
A cominciare dalla grande gara mondiale lanciata da USA e CINA per gli incentivi a investimenti di centinaia di miliardi di dollari nelle sfide tecnologiche del futuro. Tra fine 2022 e inizio 2023, Ursula von der Layen provò a lanciare l’idea di proseguire sulla via del Next Generation EU, lanciando nuovo debito europeo come safe asset sui mercati finanziario insieme alla necessità di espandere il bilancio comunitario, come sottostante finanziario al nuovo debito comune.
Ma i governi la tacitarono subito. E così siamo arrivati al confronto sui decimali di PIL di deficit e debito nazionale. Un errore che sembra fatto apposta per rafforzare i voti populisti e antieuropei alle prossime elezioni, invece di fronteggiarli con una piattaforma comune europea tutta declinata al futuro.
Oscar Giannino
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