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Qual è il (vero) ruolo delle privatizzazioni

 Da queste colonne Mario Deaglio ha svolto alcune considerazioni sulla politica di privatizzazioni che il governo Meloni sembra avere in animo di perseguire. Partendo dalla notizia – non confermata ma plausibile- che il Met intenda vendere il 4% di Eni ricavando così 2 miliardi di euro da destinare all’abbattimento del debito pubblico, l’illustre economista ed editorialista propone due considerazioni . La prima è che vendere partecipazioni societarie in modo occasionale (come, ad esempio, e recentemente accaduto per il Monte dei Paschi di Siena) senza una vera e propria politica industriale sottostante non ha molto senso.La seconda è che il nostro debito non si diminuisce privandosi dei gioielli di famiglia. Alcune imprese sono così strategiche che è bene rimangano in mano pubblica per servire fini più alti del profitto (nel caso di Eni si valorizza il suo ruolo di politica estera).

 Questa posizione non è certamente eccentrica. Anzi, la necessità di una politica industriale e la perplessità (e in alcuni casi aperta ostilitá) verso la cessione (o peggio, la svendita!) dei gioielli di famiglia, sono le posizioni prevalenti nel nostro Paese. Proverò ad inquadrarle sotto una visuale diversa. In primis, nonc’è alcun bisogno che le aziende strategiche siano di proprietà statale. Si pone poi un problema di cosa sia strategico e la politica tende ad allargarsi quando le viene richiesto di definire il perimetro. Basta esaminare la normativa cosiddetta del Golden power, il potere di veto che il governo italiano ha su acquisti di società da parte nonsolo di imprese extracomunitarie ma anche europee e nostrane, veto che si estende all’adozione di determinate delibere societarie. Ebbene, la legge include: difesa, sicurezza nazionale, tecnologia 5G, energia, trasporti, comunicazioni, infrastrutture critiche (acqua, salute, media, trattamento dati, finanza, aero spazio), tecnologie critiche (intelligenza artificiale, robotica, semiconduttori, cybersecurity, nanotecnologie, biotecnologie), approvvigionamento di materie prime, banche, assicurazioni, database e mi fermo qui. Salvo che per pasticcerie e orto frutta, è difficile privare la Nazione Italica dei suoi gioielli o peggio ammettere degli azionisti considerati pericolosi.

Ma ammettiamo pure per un momento che si possano definire strategiche quelle imprese legate alle funzioni minime dello Stato come difesa, sicurezza interna, politica estera, moneta. E prendiamo come esempio la prima superpotenza politica e militare al mondo, gli Stati Uniti. Orbene le grandi industrie degli armamenti americane, dalla Loockhed Martin alla Northrop Grumman sono quotate in borsa e senza traccia dello Stato nell’azionariato: qualcuno può forse dubitare che tali aziende possano agire in modo contrario agli interessi fondamentali degli Stati Uniti? E che anzi il loro governo non operi fattivamente per promuoverle con altri governi? Oppure la Exxon: per decenni accusata di essere la longa manus dell’imperialismo yankee e ora scopriremmo che in realtà siccome il Tesoro Usa non aveva azioni ha agito come una variabile impazzita? Nella iper-socialdemocratica Svezia, la Saab, che costruisce aerei da caccia, navi da guerra e radar è di proprietà della famiglia Wallemberg e qui ci fermiamo.

L’obiezione sulla mancanza di politica industriale merita di essere esaminata approfonditamente, soprattutto se ci intendiamo sul significato della parola. Nei vari settori regolamentati ci sono piani del governo (o dell’Unione Europea) e autorità di vigilanza. Nel settore dell’energia c’è il piano energetico nazionale, il Green Deal europeo, l’Autorità di regolamentazione di energia e gas (Arera). Che Enel, Acea, Iren, A2A, Hera siano di proprietà pubblica o privata non cambia niente: già competono tra loro e con imprese che o sono private o addirittura appartengono a Stati Esteri e tutte sono tenute ad operare nel medesimo quadro normativo. Banche?

Quale interesse nazionale potrebbe essere perseguito dai pochi istituti di credito rimasti in mano pubblica, rispetto ai competitor molto più grandio ai nuovi entranti fintech innovativi ed agili? Il tutto sotto l’affettuosa vigilanza e sapienza regolamentare di Bce e Banca d’Italia. Troppo affettuosa direbbe qualcuno.

E qui veniamo al punctum dolens. Oggi in Italia sviluppare una politica industriale vuol dire tre cose: concorrenza, infrastrutture e settore pubblico. Togliere ogni privilegio a grandi o piccoli settori per aumentare l’efficienza e liberalizzare i mercati compreso quello del lavoro, avere infrastrutture che consentano ad un’impresa di Palermo di raggiungere Catania in meno di 3 ore e 13 minuti in treno; contare su una pubblica amministrazione che non ti faccia aspettare 6 mesi un passaporto se non pagando un agenzia spicciafaccende; magari riformare un sistema educativo che non condanni alla mediocrità per ansia di appiattimento. Risolviamo questi nodi e la politica industriale è bell’e fatta.

Di Alessandro De Nicola 

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